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01/02/15

Dove si va poi.

Vola tra i tetti e i fili di fumo che escono dai comignoli. C'è un cielo d'inverno che va verso sera, di poche nuvole e qualche rumore: le campane della chiesa, il traffico cittadino, il fruscio degli alberi sorpresi dal vento. E' proprio quel soffio che lo sta cullando, gelido ma tanto leggero da abbandonarcisi volentieri, e svolta qua e là, tra i rami del parco, oltre i cancelli, per le strade grigie illuminate dai lampioni. Dove lo porterà, quel vento quieto, non gli è dato saperlo, ciò nonostante si fa guidare senza alcun timore, fuori da Kensington, all'imbrunire di mercoledì.
Un uomo là sotto attira la sua attenzione. E' avvolto in un grosso cappotto scuro e cammina goffamente, appoggiandosi a un bastone. Il suo incespicare, quando una pozzanghera incontra i suoi passi, gli fa molto ridere, da fargli lacrimare gli occhi e persino perderci il fiato. E allora lui gli passa vicino, dimenticando la corrente per un attimo, per godersi meglio il suo uomo nel cappotto. Gira due volte poco sopra il cappello, fa una capriola, una piroetta, e poi lo afferra, portandoselo appresso. L'uomo esclama qualcosa vedendolo andare a zonzo per proprio conto, e incomincia a correre, bastone dritto in alto, nel tentativo di agguantarlo. 
Gioca, si diverte un mondo, ma infine, vedendolo affaticato, perde il piacere. Inverte la rotta e gli poggia il cappello direttamente in testa, volando verso il soffio freddo.
Ecco, una finestra appena illuminata, è lì che il vento porta. E' al primo piano ed è molto accogliente: vetri puliti, tende rosse come rubini, e un vaso di fiori del colore del cielo. Scrutandovi attraverso nota un vecchio steso a letto. E' un signore striminzito, pieno di rughe e avvolto in coperte lana, una mano stretta tra quelle giovani  di una ragazza. Il vento apre un poco la finestra, invitandolo a entrare. 
La ragazza ora piange, singhiozzando in silenzio sul suo vecchietto immobile. La sta osservando ed è in quel momento che qualcuno lo strattona, tirandogli i calzoni. Si volta, trova un bambino impaurito. Avrà si e no la sua età, qualche centimetro in meno d'altezza, e guarda il vecchio e la ragazza con aria sconvolta. Il piccolo si avvicina alla ragazza, gli occhi gonfi di lacrime, e con la manina paffuta prova ad accarezzarle i capelli, ma non ce la fa, qualcosa glielo impedisce. Il vento soffia da un altra parte.
Peter prende quella mano persa nel vuoto, accoglie il bambino sperduto, lontano dallo spettro di quel che era, dalla sua vecchiaia. Insieme volano via, fuori dalla finestra, portati dal vento verso i giardini di Kensington. Guarderanno dall'alto lo specchio d'acqua del lago, e leggeri come rondini vi passeranno attraverso.

02/01/15

Potrei scrivere di questo.

C'è il caminetto acceso, due tipi improvvisano con le chitarre. Chiara, di fronte a me, si stringe nel maglione fissando Gimmi che suona, Matteo, invece, si passa un preservativo tra le mani. Giulia è persa a guardare le fiamme. Gioco coi suoi capelli. Ha gli occhi scuri, sembrano i miei, il fuoco ci si riflette dentro. La rossa che le sta di fronte, intanto, è un tutt'uno con quel caldo.
Finiscono di suonare.
''Dai, bella questa! No?'' fa Gimmi appoggiando a terra la chitarra.
''Certo, sì...'' risponde Chiara. 
''Ahh è la cosa migliore che abbiamo suonato fin'ora e non apprezzate un cazzo.''
Anche l'altro posa lo strumento. ''Io vado su.'' dice, prendendo il vino e scomparendo per le scale. La musica riparte.
''No a me piaceva sul serio comunque...'' riprende Chiara, coi riflessi delle fiamme sulle scarpe nere.
''Oh, chi è che vuole un preservativo?'' fa Matteo lanciandone uno.
''Tanto a te non serve, no?'' risponde Giulia sarcastica, mentre le intreccio a caso i capelli.
''Ahah, simpatica.''
''Non c'è di che.''
Potrei scriverci su qualcosa di sta roba, penso tra me, e l'altro suona ancora, e Chiara pare incantata a sentirlo mentre bevo un sorso e riprendo coi capelli dell'altra.
''Sì, tanto qua non va mai come dovrebbe.'' ricomincia Matteo.
''Cioè?''
''Cioè il buono perde, Dio c*n!''
Il chitarrista ride, Giulia e la rossa pure, io anche. Chiara invece è persa nelle note, pare sciogliersi. Potrei scrivere qualcosa di questo, penso. Ma cosa?... non mi viene in mente nulla, zero. Bevo un altro sorso, Matteo mi tira il preservativo addosso. Quanti cazzo ne ha? Decido di fissare la rossa. Non sono bravo al gioco di fissare la gente e restare serio, ma stranamente ora mi riesce. Mi guarda, ride, distoglie lo sguardo, mi guarda di nuovo, come a dire che cazzo hai da guardare? e poi sorride e prende fuoco. Davvero, letteralmente: le prendono fuoco i capelli, ma lei non fa una piega.
Che cazzo di roba è? Le note vanno più rapide, mi rompo di giocare col ciuffo di capelli e metto la mano dietro al collo bollente di Giulia. La rossa mi guarda e si rigira, frustando l'aria di scintille. La musica sale ancora ed ecco svelato tutto l'interesse di Chiara per il chitarrista: si sta sciogliendo, per lui. Parte dalle scarpe nere e lucide, che gocciolano formando una pozzanghera nera petrolio a terra. Poi gocciolano via anche le calze, le unghie dei piedi, la pelle, le gambe, pian piano, a tempo con la musica. Ma tu guarda che cosa strana, un'altra! Potrei scrivere di questo? 
Smetto di giocare col collo. Mi stravacco sulla sedia per quanto possibile e Matteo mi allunga la bottiglia. 
''Guarda come si scioglie.'' dico a Giulia prima di buttar giù il vino.
''Eh?'' 
''Guarda Chiara come si sta sciogliendo guardando Gimmi. E' proprio persa, non vedi?''
''Naa, cosa dici?'' fa tornando a fissare il fuoco. 
Che tipa strana, che razza di tipa strana. Forse potrei scrivere di lei? No, la donna che si scioglie vicino a quella che va a fuoco è più divertente. Ed è quasi alle ginocchia ormai, e sotto di lei si spande un lago scuro come la pece, con le striature di rosa pallido della pelle, il sangue cremisi e il bianco delle ossa. Non ho idea di come possa andare a finire, tra un po' non dovrebbe nemmeno più riuscire a stare seduta.
Matteo si alza e se ne va: ''Vado su anch'io, ciao.''
Gimmi suona, Giulia si sposta nella sedia, la rossa è un incendio e io guardo Chiara nel suo punto più interessante: le cosce. Sono lì per metà sì e per metà no, ma non è una cosa macabra da vedere, qualcosa che fa senso o schifo o vomito. E' un fenomeno con una sua certa eleganza, con forme dolci che vanno via via assottigliandosi, sempre di più, cadendo verso il pavimento in rivoli fini, come la cera bollente. Le gambe sono quasi finite, barcolla, si dondola infastidita sulla sedia. E ora che succederà? Potrei scrivere di questo, diavolo se potrei! Ma devo vedere che succede quando si scioglie tutta la parte sotto. Ancora pochi secondi, poche gocce...
''Oddio oddio oddio basta, devo andare.'' fa la ragazza mezza sciolta alzandosi, distogliendo finalmente lo sguardo da Gimmi e la sua chitarra. ''Devo fare la pipì, me la sto facendo sotto!'' e detto questo, si fa strada passandomi di fianco, e se ne va.
La pipì. Si stava facendo la pipì addosso. Come ho fatto a non pensarci prima? Bella mossa Chiara, questa sì che potrei scriverla! Però ora mi manca un finale e Gimmi non suona più.
''Ou Gimmi.'' gli faccio mentre Giulia e la ragazza in fiamme si dicono qualcosa. ''Ma, come potrei finirla secondo te tutta questa storia?''
''Non lo so.'' fa lui senza un'espressione precisa in volto, senza chiedermi Quale storia?, massaggiandosi il pizzetto. ''Di' qualcosa di conclusivo!''. Poi si alza, pesta per sbaglio la pozzanghera di ragazza sciolta, e va a prendere le sigarette. Credo di sì, potrei proprio scrivere di questo.

07/11/14

Effetto Kulesov

Mi è venuto in mente di un espediente cinematografico che funziona molto bene nelle realtà di ogni giorno, e che si attua nelle nostre teste.

Inizio il discorso presentandovi il signor Lev Kulesov, che è considerato una sorta di pioniere, un fondatore per quel che è il percorso cinematografico sovietico degli anni '20. Kulesov dirigeva la Scuola Statale di Cinematografia, ed è in quel contesto che compì alcuni importanti esperimenti riguardanti montaggio. 
Egli riteneva che partendo da un'inquadratura e accostando ad essa, di volta in volta, differenti immagini, la correlazione visiva che si creava mutava il senso del risultato finale, dava quindi nuovi significati.
Prese allora il volto di Mozzuchin, uno dei divi del cinema zarista, un tipo che gli stava abbastanza sulle balle, e gli fece susseguire le inquadrature di una minestra, poi di un bambino morto, infine di una donna sensuale. Il risultato fu appunto che l'espressione del divo, pur rimanendo sempre la stessa, allo spettatore pareva cambiasse nelle intenzioni.
Tale effetto prende il nome appunto di Effetto Kulesov.

Proviamo a vedere allora, come vi dicevo all'inizio, se l'effetto Kulesov funziona davvero anche nel nostro pensiero, nel modo che abbiamo di vedere la realtà e quindi di giudicarla. Ho scritto queste tre storie diverse. Dovete leggerle e dare un giudizio singolo per ognuna di esse.

30/10/14

Anna.

La scorsa notte mi ha fatto visita Anna, ed era tanto, tantissimo tempo che non le parlavo. Un incontro spiacevole, che avrei voluto evitare, e di cui ti racconterò a breve. E' infatti il caso di soffermarci prima sull'insolita circostanza in cui le nostre strade si sono incrociate, il che ci fa tornare indietro di un bel po' d'anni, a quando ne avevo undici, e passavo i primi pomeriggi autunnali a esplorare i boschi del Montecio col mio amico Fabio.
Immagina allora una cittadina del nord Italia di modeste dimensioni, e una collina anch'essa modesta, che sorge nel bel mezzo di questa: il Montecio. La gente trova riparo dalla calura estiva sotto le fronde dei suoi alberi, si tiene in forma correndo i quasi due chilometri di circonferenza che le regala, e ancora, porta a passeggio i cani, fa due chiacchiere con gli amici, si racconta del tempo che fa e di quello che passa. Immagina ora due bambini che della collina adorano i suoi sentieri, tracciati tra i pungitopo e immersi nella vegetazione. Due che in quel bosco, un giorno, scoprono la presenza di alcune grotte, sparse qua e là, e che le esplorano armati di torce, curiosi di vedere dove vadano a finire e cosa ci sia dentro, nascosto in mezzo al buio. Immagina infine che i due marmocchi, passata qualche settimana e ormai disincantati da quegli anfratti prima misteriosi, trovino l'ingresso di un'ultima, strana, caverna.

''E' troppo bassa, dovremmo strisciare per entrarci. Dici che poi si alza dentro?''
''E che ne so, non abbiamo neanche le torce.''
''Beh, andiamo più vicino allora, magari si vede qualcosa dentro.''
Avanziamo facendoci largo tra gli arbusti. Ci abbassiamo guardando di sbieco l'interno della grotta. 
''Boh io non vedo niente.'' dice Fabio.
''Già... andiamo a prendere le pile?'' rispondo, aguzzando la vista. ''Un po' di luce in realtà c'è là in fondo, vedi?''
''Dove?''
''Là.'' dico entrando un po' con la testa. ''Verso destra c'è un po' di luce, e c'è... c'è come un... una... cazzo c'è una faccia!''
Mi tiro indietro, esco da quel buco nero.
''Come una faccia?'' chiede Fabio stupito.
''Sì sì ti giuro sembra una bambina guardala guardala, sembra la faccia di una bambina!''
Inizialmente titubanti decidiamo poi di correre a casa e prendere le torce. Dobbiamo sapere, dobbiamo vedere. Mezz'ora dopo abbandoniamo le bici nel prato di fronte la scuola elementare per poi risalire un sentiero della collina, tornando all'imboccatura della grotta. 
''Fai luce'' dice Fabio, squarciando l'oscurità con la sua. ''Mmm... io non vedo nessuna bambina, sai?'' fa ironico.
''Ti giuro che era lì, l'ho vista.'' rispondo cercando verso il fondo. 
''Entriamo?''
''Entriamo.''
La parete è abbastanza larga ma il soffitto molto basso, tanto da restare accucciati per i primi metri. Più avanziamo più è buio e freddo, l'uscita dietro di noi si fa sempre più lontana. Ci guardiamo intorno, scrutando le pareti umide, alzandoci poi in piedi quando finalmente lo spazio sopra le teste ci permette di non sbatterle. 
''Oh!'' urla Fabio guardandomi e indicando qualcosa sopra di me.
Mi giro e noto una foglia marrone scuro penzolare dall'alto, anzi un ramo, anzi un... ''Un pipistrello...'' sussurro togliendomi in fretta da lì con la pelle d'oca.
Incerti, non sappiamo se continuare o meno. E se ce ne sono altri di quei cosi? E se si svegliano e cominciano a volare? Un rumore ci distoglie da quei pensieri. Qualcosa che viene da più avanti, qualcosa che non riusciamo a vedere, qualcosa che quel giorno, ci traumatizzò tanto da farci dimenticare tutto in un istante, come fosse stato solo un brutto sogno: Anna.

12/08/14

Un giorno in più.

Si passano di mano in mano lo spinello, chi beve, chi suona la chitarra e canta, illuminati dalle fiamme del falò. E' una bella serata, la loro ultima lì in vacanza, limpida e calda, e il mare li accompagna col lieve rumore delle onde.
Lui la guarda dall'altro lato del fuoco, i capelli ancora bagnati sono raccolti lasciandole scoperto il collo. Lei lo vede, sorride. 
E allora andiamo, si convince.
Si alza e le va incontro, qualcuno lo osserva incuriosito, qualcuno vomita in disparte sostenuto da qualcun altro, ridono e altri continuano a cantare, un paio limonano duro. La prende per mano e la porta via, lontano da tutti gli altri.
''Dove andiamo?'' chiede lei, arrostendo ancora un po' il cuore di quel povero pollo già cotto da una settimana.
''Ti devo mostrare una cosa'' risponde, andando verso il pontile. Lo percorrono tutto e si siedono sul bordo, guardano il mare. Finisce la sigaretta e tira fuori l'mp3, si mette una cuffia, una è per lei.
''Tutti soli a vedere le stelle cadenti? Ma sarai mica un romanticone?'' domanda in un tono abbastanza versione presa per il culo, facendolo saltare punzecchiandogli il fianco.
''Niente anuanuei alla Dawson's Creek, e stai buona su!'' dice prendendole la mano. ''Adesso guarda lì'' fa indicando il cielo ''e stai mooolto rilassata.'' aggiunge sorridendo.
Quattro scie rimbalzano da una parte all'altra rischiarando le poche nuvole che ci restano pure male, a venir disturbate in quel modo. Fanno una faccia tutta arrabbiata che lo diverte. Si tuffano in acqua a un metro da loro, affondano, e tre enormi tonni, brutti non come i soliti tonni ma invece piuttosto simpatici e ammiccanti suonano basso, chitarra e batteria. Una sirena canta.
Lei li squadra sconvolta, poi guarda lui, sconvolta. Sta per dire qualcosa ma il ragazzo la ferma facendo segno di silenzio col dito, ridendo.

27/06/14

Un sorso di vita, il mio racconto finito su un libro.

Il 3 febbraio, un giorno prima del mio compleanno, ho provato a partecipare a un concorso di scrittura su consiglio del mio vicino di casa Riccardo Sartori. Inviato il lavoro il mio racconto breve è stato scelto in un baleno per essere inserito nell'antaologia 365 Racconti d'estate, che raccoglie appunto 365 racconti brevi, uno per ogni giorno dell'anno, e tutti con l'estate come tema comune. Praticamente mi sono fatto un auto regalo di compleanno più che gradito!
La cosa bella è che quest'antologia la potete trovare in libreria, e questo mi gasa abbastanza, e insomma io oggi vi piazzo qui il mio racconto ''Un sorso di vita'' così lo potete leggere pure voi. Oltre al mio comunque, altri due amici blogger sono riusciti a farsi inserire in questo libro, e sono il sopracitato Riccardo Sartori e il prezzemolino Miki Moz.

E nulla, se vi piace, fatemelo sapere. Se non vi piace, uguale. Ma sappiate una cosa: ora, nel secondo caso, potete pure dargli fuoco nel vero senso della parola. Non è stupendo? :)

Se non ci vedete, cliccate che diventa più grande... credo.

P.s non si deve dare fuoco ai libri, stavo a scherzavo.

15/04/14

La metà del cuore che sta nell'ombra.

Se ne stava da sola in un angolo del bar, a fissare il suo ottavo montenegro tenendo a stento il vomito in pancia. Odiava quel sapore, sapeva quasi di medicina. Là dentro faceva schifo poi, ed era buio, le poche luci riflettevano bene l'unto dei suoi capelli. Era brutta Marta, terribilmente, e il bar, quel bar, era il posto ideale per una donna brutta come lei, una che voleva soltanto star sola.
Ingollò l'ultimo shot, fece fischiare la sedia al pavimento alzandosi per andare a pagare. Il barista, un diavolo illuminato di verde vicino alle spine di birra, stava pulendo il bancone e la guardava con una smorfia, una specie di sorriso disgustato. Questa, almeno, era la figura sfocata che le riusciva di scorgere.
Imboccò la via stretta sotto una pioggia leggera, scendendo e salendo dal marciapiedi coi tacchi che alzavano schizzi. Un cestino in metallo la fermò senza remore e lei vi si avvinghiò per non cadere, nessun pudore, ma ormai era troppo tardi: le calze, all'altezza delle ginocchia, si erano spaccate. Rimase lì un po', ferma, a bagnarsi in compagnia del fetore dell'immondizia. Pensò, amaramente, quasi di somigliarci all'immondizia, le mancava soltanto la puzza. Era tutta una merda quella vita, una vera merda.
Quando decise di rialzarsi e camminare la pioggia era un po' più forte. Costeggiava la riva del fiume zigzagando tra le pozzanghere brune. I tacchi, passo dopo passo, affondavano sempre più nel terreno molliccio, centimetro dopo centimetro, sempre peggio, nella melma. Perse una scarpa. Imprecò. Tentò di infilare il piede lercio ma non riusciva a centrare il buco. Le venne in mente quell'ultimo coglione che l'aveva scopata. Quale coraggio quell'uomo. Ricordò che anche lui non riusciva a centrare il buco, forse troppo ubriaco, forse troppo schifato. Se la rise di gusto Marta, le luci delle auto sul ponte lontano che ogni tanto incrociavano i suoi occhi umidi. Poi raccolse la scarpa da terra, urlò, e la lanciò in acqua. Lo stesso fece con la seconda, affogandola direttamente con un calcio.
Pianse su una panchina rivolta alla corrente, il suo mezzo cuore in mano. Se lo rigirava tra le dita infreddolite, era tiepido quell'inutile affare, e proprio rimuginando sull'inutilità che almeno la riscaldava un po', vide l'ombra rossastra, che avanzava da destra. Era un'ombra alta, slanciata, magra, teneva in una mano un ombrello, anch'esso di ombra, e nell'altra qualcosa di pulsante. Era un uomo, si accorse, uno giovane, e sembrava bello. Sembrava anche cercasse qualcosa. Spedito avanzava ora verso la riva del fiume e poi si bloccava. Tornava quindi sui suoi passi e di nuovo fermo, procedeva verso destra e stop, avanti sempre rapido e poi fermo di nuovo, guardandosi qua e là: fino a quando ecco, vide Marta.
Lei non sapeva che dire, che cosa pensare. L'uomo adesso le stava davanti coprendola col suo ombrello. A vederli da quel ponte, un passante, osservò per un attimo lo strano quadretto: acqua nera che scorreva inferocita da un lato, un pendio erboso che la separava dalla città addormentata nell'altro, e tra i due, loro, sulla riva sterrata, su una panchina, piccoli quanto una mano, i contorni rischiarati da un pulsare rossastro. Il passante tornò alle sue cose, era notte fonda d'altronde, se ne andò via.
Marta ammirava stupita il suo pezzo di cuore, che teneva sul palmo aperto. Stava pulsando, stava brillando come mai aveva fatto prima, ed era caldo. Anche l'uomo guardava il proprio mezzo cuore palpitare. I due, insieme, erano un cuore solo, perfetto, e se ne accorsero subito. Si sorrisero, e lei non pensò nemmeno per un attimo di essere la brutta persona che era, non le passò minimamente per la testa. D'impulso unirono i loro mezzi cuori e un fulmine scarlatto schiarì a giorno la panchina, il loro ombrello e tutto il resto. Poi Marta chiuse le mani e se lo tenne stretto, al sicuro, per non farselo scappare mai più. 
Era buio e c'era silenzio, e i loro corpi erano vicini. Sentiva il suo alito, profumava di buono, sapeva di fumo di pipa e di un qualcos'altro di rassicurante. Lui la abbracciò, la strinse a se, lei così mingherlina e con quel cuore bollente racchiuso tra le mani piccole. Era stupendo, era perfetto, si sentiva, finalmente, completa. Non poteva proprio perderla un'occasione del genere, mai nella vita Marta si era sentita così, mai, mai, mai...
Affondò la testa nella giacca di lui, trovò il suo petto. Sembravano cullarsi assieme quei due; sembravano, ma non era davvero così. Pochi passi, pochi sul serio, questo lei lo sapeva bene. Ne fece un paio con calma, e poi, al momento giusto, trovò una forza che sapeva bene di avere nascosta da qualche parte, una cosa rabbiosa e feroce, brutta, e accelerò, cuore in una mano sola, mentre l'altra lo spingeva giù nel fiume, nell'acqua gelida e infuriata. Lui, il giovane d'ombra, scomparve per sempre, sparì così com'era venuto.
Non si girò nemmeno indietro Marta, mai più avrebbe guardato dal basso all'alto un uomo, mai più si sarebbe fatta rubare pezzi di lei da quegli sciacalli senza scrupoli. Tornò verso casa sentendosi in pace, sentendosi bene. Dietro di lei restava solo una panchina vuota e un ombrello bagnato.
Era davvero, davvero bellissima Marta.

07/03/14

L'occhio di Emily.

Era nel suo letto, nella sua stanza, al buio e nel silenzio, ma di dormire come al solito proprio non le riusciva, così come di muoversi. Restava immobile a pancia in su, senza emettere un fiato, e fissava a occhi sbarrati quell'altro occhio, che la scrutava insistente da una manciata di minuti. Era una cosa enorme, grande quasi quanto lei, una bambina di dieci anni, e se ne stava sospesa a mezz'aria a puntarle la sua rabbia silenziosa addosso. Assieme alla rabbia poi, c'era pure la bava: un quantitativo spaventoso di fluido caldo che colava dalle palpebre ad ogni battito di ciglia. La piccola ne era inondata, le coperte di lana pure, inzuppate dalla nauseabonda sostanza sanguinolenta. 
Emily non poteva muoversi ma ogni tanto, quando l'istinto di sopravvivenza prendeva il sopravvento sulla paura, un tremito più forte la scuoteva di un poco dal tacito immobilismo. Voleva urlare Emily, ma non le riusciva. Voleva anche scappare, oppure tirare un pugno a quel coso orrendo che galleggiando sopra di lei la violava con insistenza. La pupilla nera e maligna , l'iride smeraldina, la sclerotica di un insano giallo limone. Non bastasse poi, la piccola finiva sempre col soffocare. Quando l'occhio puntava il suo viso, sbattendo ancora e ancora le palpebre, le riversava la bava schifosa proprio in faccia, e lei, non potendosi muovere, respirava sempre meno aria e sempre più morte.
Il suo petto striminzito andava su e giù, con più foga, più veloce, il mostro occhio sopra di lei sempre più sfocato. E infine il peggio passava, e tutto si risolveva: lei tossiva e sputava fuori, boccheggiava in cerca d'ossigeno ansimando e gridando assieme, finché qualcuno nell'altra stanza non la sentiva in preda agli spasmi. La madre allora apriva la porta, la raccoglieva da quel lago di sudore, e si curava dell'ennesimo attacco d'asma.
Emily, sguardo privo di senno, cercava un qualcosa, da qualche parte, che già non ricordava più.

12/02/14

Me, due volte.

Oggi un racconto breve che ha bisogno di una piccola introduzione, ma solo per giocare. Quella che segue è, in un certo senso, una fanfiction. Non è completamente definibile tale perché per scriverla mi sono soltanto ispirato ad un film, o meglio a un aspetto di esso, e voi ora potete provare a indovinare quale ne sia il titolo. Mamma mia, giochi davvero divertentissimi, eh Cerv?
Beh, prima leggete, magari senza pensarci troppo su, poi si vi va, giocate ;)

Cammino, attreverso il corridoio. Alla sua fine, sulla destra, una sedia, e di fronte a quella, una vetrata.
Lo vedo arrivare con calma. Mi squadra. Lo guardo anch'io, stupefatto, come fosse la prima volta. Si siede di fronte a me, dall'altro lato, al sicuro.

Ciao.
Sei tornato.
Sì.
Mmm...
Qualcosa non va?
No. Non ne sono sicuro.
Sì o no. È semplice.
No, non è semplice.
Oh, io dico di sì. Forza prova a pensarci, guardati bene. So esattamente qual è la domanda che ti poni: sono io quello che la mattina vedo allo specchio?
Bene, perspicace. E ti rispondi pure?
Certo, nello stesso tuo modo: Sì, sono io.
Molto interessante. Hai altro da dirmi o vuoi giocare allo psicologo con me?
Perché proprio quello? Perché così? Sono sicuro ti chiedi anche questo.
Mi ci sto avvicinando, continua.
Ti ci  stai avvicinando? Cos'è, ora inverti le parti e sei tu a fare il dottore con me?
Brutto stronzo io mi ci sono ritrovato così, non l'ho deciso. Stessa testa, stesso corpo, stessi pensieri e istruzione, ma io non sono così.
È questo che ti turba?
Non cercare di psicanalizzarmi, pezzo di merda! Sei stato tu a farmi questo.
Giusto, e se la vuoi mettere in questo modo, potrei essere definibile come tuo padre, il che è curioso, non trovi? Tuo padre, nonché il mio, sappiamo bene chi è.
No, il tuo, non il mio. Io...
Tu ti ricordi di loro, non è vero?
Vorrei chiudere qui il discorso. Vattene.
Rispondimi.
...
Avanti, ho detto rispondimi.
Io ricordo, tutto. Io... c'ero, li ho visti, li ho toccati, ho sentito le loro voci, i loro abbracci, il loro amore, il loro dolore. E invece è tutto finto, falso... io non sono questo, io non sono te, io non sono te!
Nessuno ti capisce meglio di me.
No, tu non mi capisci, non puoi.
Io sono te, siamo la stessa persona.
Io sono... un'idea, una bugia, niente di più. Io sono me stesso da quando ti ho incontrato, da quando ho pensato che io, come persona, esisto davvero. Tu non sai com'è stare qui dentro, rinchiuso come un animale in gabbia, a fissare quel tuo ghigno del cazzo.
Però ti capisco... perché io sono...
Tu non sei me!
No, non lo sono, è vero. Io ero, intendevo dire, ero te.
Non sono altro che un bambino troppo cresciuto, uno scherzo della natura, un capriccio: un tuo capriccio.
Ma tu mi salverai la vita.
Io morirò.
Tu non morirai. Sei me.
Sì, certo, fino a due giorni fa, poi ti ho visto e ho capito. Bella sorpresa del cazzo. È per questo che sei venuto a farmi i tuoi giochetti mentali? Che diavolo credi, che non li conosca dopo anni di lavoro e ricerca? Mi prendi per il culo forse?
Non sentirai la differenza.
Perché sarò morto schifoso bastardo! Tu mi vuoi uccidere, tu sei una merda, tu sei un egoista del cazzo...
Ti prego... calmati. Non posso vederti così. Non posso vedermi, anzi.
Non voglio morire.
Vivrai in me, sarai, come è sempre stato, me.
Tu lo faresti? Moriresti per me, al posto mio?
Io...
Certo, non lo faresti, chiaro. Due giorni diversi,  per quanto siano reali e unici, non cambiano la persona schifosa quale siamo.
Mi dispiace.
Vaffanculo!
È strano... vedersi.
È strano dover sopportare questo. Vorrei poter essere libero, e ricordare qualcosa di solo mio, vivere davvero per me. Vorrei anche che te ne andassi, oppure che venissi qui, al posto mio, a crepare come un cane. Ti piace l'idea? Che ne dici?
Devo andare.
Di già? La situazione deve averti messo davvero a disagio per far si che trascinassi nuovamente il culo fin qui, tanto per fare due chiacchiere ed elargire dello squallido moralismo da quattro soldi.
È... stato bello conoscerti.
Sì, bene. Non posso dire lo stesso.
Lo capisco.
Fottiti, addio.
...un arrivederci?
Fanculo.

Vado via, non reggo un secondo di più. Mi sento rotto dentro, distrutto.
Se ne va e prendo a pugni il vetro, la mia mano destra cede prima di lui. Mi ci abbandono, esausto, sento la testa pesante. Un arrivederci mi chiede... un arrivederci. Beh, lo spero davvero. Davvero...

03/02/14

Illusion d'Ombre, l'ebook gratuito.

Buongiorno ragazzi cari. Oggi arriva gratis per voi un ebook piuttosto particolare. Intitolato Illusion d'Ombre, il libro è scritto non da uno ma ben 10 autori diversi tra cui, ovviamente, me.
Il progetto è nato dall'idea di Maria di Biase nel giugno 2013 e oggi, dopo 8 mesi circa, vede la sua conclusione e l'arrivo sul web. Praticamente si tratta di un progetto di scrittura collettiva.
Ma come funziona la scrittura collettiva?

Nel nostro caso Maria, oltre ad aver gestito 10 scalmanati, ha fornito l'incipit, molto breve ed essenziale, su cui noi, uno per volta con un capitolo a testa, avremmo dovuto costruire tutto il resto. È stata un'avventura lunga e non semplicissima, ma qualcosa ne è uscito. Sul blog di Maria comunque trovate segnalato l'articolo che racconta i retroscena di questo progetto.
Ma bando alle ciance, è ora di lasciarvi alla lettura. Qui trovate l'ebook in formato epub, mentre qui lo potete trovare nel formato mobi.
Vi lascio ora con l'incipit, giusto per incuriosirvi, e vi invito a farmi sapere che ne pensate. Colgo l'occasione infine per ringraziare l'ideatrice del progetto e per costringervi (liberamente) ad andarla a trovare sul suo blog.
Baci e saluti, CervelloBacato.

"Ad uno spettatore casuale Edgewood Road non sarebbe apparsa diversa da una qualsiasi altra strada della città di Middlesbrough; una via come un'altra tesa ad imbrunire alla presenza di un tenue residuo lunare.  
Le abitazioni, basse e allineate, conferivano al paesaggio un aspetto ordinato e impersonale, irreale quasi, se non fosse stato per un paio di cartelli stradali, testimoni inconsapevoli di una civiltà a riposo.  
La luce di un lampione, l'unico che avesse mai funzionato, smorzava l'oscurità che inghiottiva i profili degli ultimi passanti ancora in circolazione. Ma, seppur presi dall'urgenza di tornare a casa prima che la notte li sorprendesse, gli abitanti di Edgewood Road non mancavano di rivolgere almeno per un istante lo sguardo in direzione del vecchio edificio all'angolo della strada. Sapevano, prima ancora di voltarsi, che lui sarebbe stato lì: un uomo, sempre lo stesso. Inizialmente mossi a curiosità, avevano smesso da tempo di interrogarsi sul motivo di quel bizzarro comportamento; lo rispettavano, rassicurati dalla sua presenza così discreta.  
Nessuno conosceva la sua storia, ammesso che ne avesse una.  
Seduto di fronte alla struttura, antica sede di un celebre teatro, l'uomo fissava l'ampio portone d'ingresso. Illusion d'ombre, recitava l'insegna fatiscente.  
Lui era là, ogni notte.  "

17/01/14

Gimmy nano verde zannuto.

Giovanni Cupido detto il Cupido, o anche il Cup, quella mattina, aveva deciso di mandare tutto all'aria e di partire, partire per un lungo viaggio dall'altro lato del mondo. Ben oltre la quarantina, non molto alto, non molto affascinante, i suoi anni, proprio per esser coerente, se li portava appresso ma non molto bene, e ciò lo rendeva (da non molto tempo però) non molto piacevole al vedersi, poiché triste, trasandato e arreso.
Non che se ne fosse mai fatti di problemi per il suo aspetto, e nemmeno era solito trasmettere distacco o "provo un senso di morte a starti vicino, vorrei ammazzarmi Cristo Santo", come aveva ben esplicato il suo amico Marcuzzo pochi giorni prima soltanto per essergli stato vicino; il punto era che adesso era così, dopo il fatto del pesce del pescivendolo in vacanza in località marina. Il Cup ora si guardava allo specchio e non si piaceva affatto, si faceva schifo. Si guardava allo specchio e vedeva uno sconosciuto. "Ma io davvero sono così? Sono sempre stato così?" si domandava indugiando con lo sguardo ai rotoli pelosi della pancia. E la risposta che si dava era "Sì, certo, altrimenti ci sarei ancora io là, mica il pescivendolo col suo coso e...".
Quella mattina di un mese fa e forse più (ma quale forse, la data era incisa a fuoco nelle sue meningi) Marina Trozza, detta la Tro, oppure anche la Troia, anche se quest'ultima opzione esiste da poco tempo invero, era stata beccata sul fatto e sul fallo da suo marito, il Cup. 
"T'ho beccata sul fatto..." le aveva detto lui timidamente, coi pezzi del cuore che triplicavano ad ogni secondo in più che martellava sulle lancette dell'orologio sul muro. 
"Vorrai dire sul fallo, non sul fatto!" aveva precisato il pescivendolo Mario, col suo pesce al vento ancora umido dopo quel piacevole viaggio in località marina. Bella faccia tosta e di culo il pescivendolo Mario a rispondermi pure a tono, aveva pensato il povero Cup, fuggendo poi via, inciampando per le scale inseguito dalla valanga di pezzetti di cuore rotto. "Ma in effetti aveva ragione, l'ho colta sul fallo più che sul fatto.". Il Cup, pare palese e inutile dirlo visti i pensieri, era sconvolto e pure parecchio.
Ecco allora la decisione, dopo la presa di coscienza, dopo un mese di rimuginamenti, dopo essersi reso conto di far schifo e di esser repellente a quasi l'intera totalità dei suoi amici, ovvero a Marcuzzo solo, perché Davide era un vegetale e non poteva esprimersi: me ne vado in Thailandia a vivere... ma prima mi sbronzo! 
Pare ora opportuno fare una piccola digressione per spiegare di questo piccolo vezzo per l'alcool che tanto appassiona il nostro non più giovane protagonista: Cup amava da sempre bere. Fine della spiegazione.
Giovanni Cupido il Cup, era quindi giunto alla banca, davanti lo sportello, pronto a prelevare il suo danaro tonante e a spenderlo in abbonandanti sorsoni di coraggio liquido, o nettare degli dei, o succo d'uva, o bevi che ti passa, o ahhh le donne hai ragione guarda ma bevi che è meglio, insomma alcool, come abbiamo più volte ripetuto. Quel che il Cup non si aspettava di vedere però, era Gimmy il nano zannuto. 
Non sapeva bene né il come né il quando, nemmeno il perché il dove e tutte quelle altre domande di circostanza che l'essere umano medio tende a porsi nel mezzo di situazioni assurde per trovare un barlume di logica in burrone di insensatezze, sta di fatto che come il Cup estrasse il bancomat dal portafoglio e lo avvicinò alla fessura, il nano zannuto Gimmy lo guardò, lo fissò, gli ringhiò contro. Cup rimase immobile a pensare al nulla. Poi pensò, dopo le sopracitate domande di circostanza, "Dio, quanto è brutto!", pensiero questo che non deve sembrarvi illogico, in quanto Gimmy il nano zannuto, oltre che nano e zannuto, era verde, pieno di porri, con un cilindro in testa e un solo (non troppo lungo) impermeabile nero a coprirgli le nudità.
"Ma tu chi sei?" provò a chiedere il Cup prima di venire interrotto da un "Gneheheheh..." nanozannutesco. Quel coso corse via, un piccolo mostruoso nano verde zannuto mezzo nudo che se la dava a gambe per la città. Cup lo inseguì.
Era rapido il nano verde, e agile soprattutto. Per ogni passante o ciclista o automobilista che quello schivava a pelo, con classe, il Cup strusciava, spintonava, urtava, si schiantava con i suoi ostacoli. Qualcosa non andava. All'ennesima persona che gli intralciava la strada il nostro 40enne non più in forma e amante dell'alcool gli si scaraventò addosso. Involontariamente, certo, e provò pure a chiedergli scusa, ma non vi riuscì affatto. Il dialogo che ne seguì, tra il Cup e Ornello, questo il nome del pedone investito da Cup, anche se ora non sono sicuro che tecnicamente un pedone possa essere detto "investito" se a investirlo è un pedone e non un mezzo motorizzato, fu il seguente:
"Che cazzo, e guarda dove vai, volevi spaccarmi una gamba o cosa?"
"No guai mi si non ea mia iniezione".
"Che hai detto? Guai a chi?"
Piccola precisazione, il nostro Ornello, oltre ad avere un nome improbabile aveva pure un autocontrollo altrettanto improbabile.
"No oo etto guai, o iniezione!" 
"L'iniezione? Che diavolo stringi in mano non sarà una siringa brutto bastardo adesso ti accoppo!".

18/12/13

Alexander Sawney Beane

A sud, le colline erano coperte da uno sgualcito manto di nebbia. Steli d'inchiostro si cullavano di tanto in tanto al soffio del vento, incantati da un sorriso di luna pallido. Lui inspirò a fondo, distese i nervi, e sentì paura.
Si mosse nelle tenebre, risalendo il pendio, il profumo del peccato che gli solleticava le narici. Scivolò tra gli arbusti, sempre più spaventato, il cuore in tumulto. Croci e tombe, reliquie piante solo dalla pioggia: non c'era altro lassù, dove si apriva l'orizzonte. 
Silenzio, nulla; finché il vento non riprese a ululare restò dimentico del disagio che l'aveva assalito. Con esso tornò prima il profumo, di fiori e miele, e poi venne la musica. Una melodia ipnotica, una lirica di sospiri che gli fece indurire l'intimità e lo terrorizzò al contempo.
Si avvicinò alla fonte delle sue ansie, nascondendosi dietro un albero spogliato dalle intemperie, nudo come i seni di quella donna. Era minuta, giovane, sottomessa a un'ombra scura che la toccava avidamente, succhiando ogni suo languido lamento.
Guardò l'osceno spettacolo per attimi che non finirono mai, spaventato, eccitato. Poi cedette, e lo fece ancora.
Un taglio netto attorno alla gola, lo scaraventò via, lasciandolo a contorcersi ai piedi di una croce in pietra, il suo idolo immondo. Poi prese lei, una mano premuta forte sulla bocca, a fermare le urla, impossibili, irresistibili. Incrociò i suoi occhi di ghiaccio per pochi istanti, occhi assurdi quelli, e infine affondò i canini nella sua pelle di latte, bevendo il suo sangue, inebriandosi del suo odore, prosciugandole la vita.
Quelle creature, in quelle terre, non si erano mai spinte prima. Si rialzò a fatica, ubriaco di piacere. Barcollò fino al cadavere del maschio, lo fissò con occhi ardenti, e tornò a casa, sperando di non incontrare mai più quei mostri pieni di orrore e fascino.




30/09/13

Per amore...

-Intanto calmati, devi calmarti. Dai, siediti e prenditi un sorso d'acqua, respira lentamente. Raccontami dall'inizio, con calma, senza confusione, sono sicuro riusciremo a capire e sistemare il problema. Tranquillo, tranquillo.
Carlo finì l'acqua in un sorso unico, bagnandosi mento e camicia. Stropicciò e fece cadere il bicchiere di plastica, si sedette scomposto sulla poltrona in cuoio. Il respiro agitato e gli occhi impazziti, Giulio non riusciva a immaginare cosa avesse sconvolto il suo paziente, nonché migliore amico.
-Avevo finito di lavorare prima del solito, ok? Ho preso la macchina e sono tornato verso casa che erano le quattro, mia moglie non c'era, lei torna a casa più tardi, verso le sei e mezza.
Si rialzò dalla poltrona, camminò un po' e poi si risedette, le mani appoggiate alle ginocchia e il viso volto verso terra, a guardare un punto fisso.
-Continua, non ti preoccupare dai.
-Apro la porta con le chiavi, non busso nemmeno. Vado in cucina e apro il frigo e... mangio, mangio qualcosa, un panino non lo so, non mi ricordo.
Fece una lunga pausa restando quasi immobile, pensieroso, come volesse trovare le parole chissà dove.
-Ok ok, va bene... vai avanti, tranquillo.- disse cercando di cavargli le parole di bocca.
Carlo si prese il viso tra le mani, si passò le dita tra i capelli, si spostò agitato sulla poltrona. Mai l'aveva visto tanto irrequieto e sconvolto.
-Ho sentito un rumore.- riprese con voce tremante. -Un rumore di... dei bisbigli, dei respiri. Era camera di mio figlio.
-Marco, Giovanni?- chiese l'amico psicologo, provando a immaginare dove andasse a parare quella storia.
-Marco, era Marco. Il più piccolo. Ha sedici anni Cristo Santo, sedici anni!- fece ricominciando a piangere.
-Ehi ehi, forza Carlo, calmati, concentrati, vai avanti e cerca di stare tranquillo. Prendi un sorso d'acqua tieni.- continuò Giulio porgendogli il bicchiere, che venne ignorato.
-Mi sono avvicinato, non so perché, mosso dalla curiosità, non lo so, io... la porta della sua camera era socchiusa, non mi aveva sentito. Lo stava facendo con una ragazza, mi sono fermato a metà scalinata quando l'ho capito. Io non volevo... capisci? Poi però ho sentito. Ho sentito la sua voce e...- Carlo si fermò di nuovo, singhiozzando e tirando pugni al bracciolo del divano. -Era Laura capisci? Era Laura, cazzo, quella che scopava con mio figlio era Laura!-.
-Tua... tua...- le parole si impigliarono nella gola di Giulio, senza uscire.
-Mia figlia e mio figlio, nudi aggrovigliati e... si dicevano oscenità, delle cose che... ho aperto la porta, non volevo ma io non lo so cosa stavo facendo. Si sono agitati, si sono spaventati. Lei era nuda, lui era sopra di lei e l'ha tirato fuori sconvolto ed era eccitato e ... Dio, Dio Dio!- esclamava singhiozzando e stringendo i pugni, poi nascondendo il volto all'amico quasi volesse nascondere la vergogna.
-Carlo ti prego calmati, è una cosa, è...
-Normale? E' una cosa normale?- lo interruppe bruscamente, -Io li ho educati per bene i miei figli, io e mia moglie siamo stati dei genitori presenti, noi... ma dove abbiamo sbagliato? Cos'abbiamo fatto per meritarci questo?- fece in tono più arrabbiato che triste.
-Che è successo poi? E Chiara, lei lo sa? Ne hai parlato con Chiara?
-Lei è... io... devi aiutarmi Giulio. Ho fatto una cosa terribile io non potevo sapere, io non dovevo, non doveva succedere è ingiusto io non ho mai sbagliato io...
Carlo piangeva, piangeva disperatamente, scivolando in giù e accasciandosi come un morto al pavimento, come avesse perso le forze all'improvviso, trascinandosi debolmente come un verme verso di lui.
-Carlo per l'amor del cielo rialzati, Carlo!- fece l'amico cercando di aiutarlo a risollevarsi e notando solo ora le chiazze rosso scuro sulle maniche della giacca, sui pantaloni. -Che cosa hai fatto?
-Io l'ho... sono un brava persona io... lei è la mia bambina e lui...
Pianse, e non disse più nulla.

Quando arrivarono le sirene Carlo non si mosse dallo studio, non reagì, non si spostò nemmeno, come pietrificato dall'abbraccio fraterno di Giulio. Lo portarono via e non fece resistenza, seguiti da Chiara, sua moglie, un'ombra dal trucco colato che le sporcava il viso e due occhi gonfi di pianto.
Giulio se ne restò nel suo studio tutta la notte, tremante, scioccato. Una famiglia distrutta, delle vite rovinate per sempre. Carlo era una persona perbene, quel che era accaduto era stato ingiusto. Ingiusto e imprevedibile, impossibile da giudicare, da capire.

15/08/13

Hurt

-Ciao, che fai?.-
-Ehi ciao. Mi annoio, tu?-
-Mi annoio anch'io. Cazzeggio su facebook. Sei molto bella in quella foto comunque.-
-Ma dai, dici?-
-Sì sul serio. Hai degli occhi stupendi.-
-Oh beh, grazie caro.-
Grazie 'caro'? Certo, come no.
-Senti volevo chiederti se ti andava di uscire uno di questi giorni.-
''Visualizzato''. Tic, tac, tic, tac. I secondi scorrevano, lei non rispondeva... perché non rispondeva? Perché ci metteva tanto? Eppure l'aveva visto, l'aveva visualizzato. Aveva detto che non stava facendo niente, che si stava annoiando. Quindi perché ancora silenzio? Tic, tac, tic, tac.
''Sto scrivendo...''. Il cuore di Marco batteva più forte, i pensieri si fermarono.
-Scusami- lettere nere su sfondo bianco, -mi aveva chiamato di là in cucina mia madre. Comunque può andare dai. Ora scusami ma devo spegnere che esco, ci sentiamo.-.
''Offline''.
Marco restava lì impalato, gli occhi persi tra il blu e il bianco del social, nell'immagine di lei, un'icona quadrata, cappelli ricci e scuri che incorniciavano due occhi verde acqua da togliere il fiato. Marco era felice ora che ci pensava. Aveva ricevuto un sì, finalmente un sì. Certo lei se n'era andata via subito senza lasciare il tempo di organizzare, ma il giorno seguente le avrebbe riscritto, così aveva deciso, e si sarebbero messi d'accordo per l'appuntamento.
Si mise a letto e spense la luce, s'infilò sotto il piumino, cuffie nelle orecchie, play. Erano tutte agrodolci le canzoni che gli riempivano la testa e i pensieri. Quelle parole e quelle melodie tristi lo capivano e lo raccontavano, si sentiva un tutt'uno con esse, e si sentiva solo... Perché nessuno lo voleva intorno, e non riusciva a capacitarsene. Non era un brutto ragazzo, non particolarmente. Un tipo normale, ecco. Guardandosi allo specchio dopo la doccia indugiava spesso sul suo corpo. Era magro, una leggera peluria gli cresceva da sotto l'ombelico arrampicandosi fino al petto, dove si espandeva in un cespuglio scuro. Pallido come un cencio, facilmente incline alle bruciature da sole e con gli occhi scuri, una leggera acne sul viso e il timido grigiore sopra il labbro, niente barba ancora. Come lui ce n'erano a milioni, persino di più cessi. E quindi...
Perché? Perché lui doveva starsene là, il sabato sera alle undici e mezza, a diciott'anni, senza uno straccio d'amico con cui uscire, senza una ragazza da baciare. Se solo Fabio non fosse partito per l'altro lato del mondo...
Una luce nel buio: lo schermo dello smartphone proiettò un alone bluastro sul soffitto. Sarà lei? pensò Marco. Oppure Andrea! Potrebbe aver cambiato idea decidendo di passare a prendermi, magari si va in disco insieme o a bere qualcosa con tutti gli altri e... Aprì il messaggio e lesse ''Vodafone, la informiamo che l'opzione xxx sarà rinnovata entro il giorno xx/xx...''. Gettò via il telefono, lontano. Com'era premurosa quella cazzo di Vodafone!
Tornò amaramente alla sua solitudine. Johnny Cash, Hurt e malinconia. Pensò alla lingua calda di Marta, a come sarebbe stato sentirla mentre s'intrecciava con la sua. L'arricciò all'indietro, piegandola nelle più contorte forme che riuscisse fare. Chissà com'è  limonarsi una tipa... Scese giù, all'elastico delle mutande, se le calò delicatamente. La mano affusolata di Marta gli graffiava timidamente il pube con le sue unghie affilate, per poi afferrare forte il suo pene turgido. Su e giù, prima piano, poi forte, poi ancora piano e di nuovo più svelto. Marta era sopra di lui, gambe aperte e fica calda e grondante di piacere, gambe lisce come la seta punteggiate da pochi piccoli nei.
Marco immaginava i suoi seni tondi e sodi, i capezzoli che sbattevano ritmicamente sul suo viso, mentre lei con foga lo montava, mentre la mano di Marco accelerava, più forte sempre più forte. Marta urlava il suo nome, i loro bacini che si strusciavano selvaggiamente e il profumo di rose nell'inarcatura del suo collo. ''Si Marco, ancora dai spingi, di più tutto dentro si Marco ohh Marco Marco!'' gridava eccitata Marta nella sua testa. E il piacere era quasi arrivato, nascosto nei pochi secondi tra l'intimo desiderio e il caldo bollore del suo seme, che s'incanalava per tutto il suo membro. Ancora un attimo, un attimo soltanto e...
-Marco, Marco svegliati!- tuonò la madre spalancando la porta, in una cascata di luce che invadeva la stanza e il cuore a tremila di lui, la mano tolta alla velocità del suono e un ondata di piacere e terrore che gli inzuppava le lenzuola. 
-Che c'è ma, che cazz...?!- balbettò non riuscendo a simulare nulla, la faccia da stronzo sfigato dipinta su un volto che era già la caricatura di se stesso, un viso che tutti prendevano in giro, sempre.
-Mi hanno chiamato... Papà...-.
Non disse altro sua madre, non serviva. E da quelle parole all'ospedale, all'ultimo sguardo a suo padre, alla bara che scendeva e s'infossava sotto terra, Marco visse come in un sogno immerso nella nebbia. Eventi che scorrevano in modo incontrollato, pensieri in un loop infinito di banalità, dolore e incomprensione. Accade davvero? si trovò a domandarsi più e più volte, fissando il vuoto davanti a lui mentre pupazzi inespressivi ciarlavano vuote parole di circostanza alla madre distrutta, al fratello maggiore disperato e a lui, immobile come una statua di cera, perso nel nulla più assoluto.
I giorni seguenti Marco si sentiva sereno e anche morto. Erano state tre di numero le frasi ricevute via sms e una via facebook da parte di ''amici''. Quattro minchiate piene d'indifferenza e banalità. E Marco si sentiva bene, e morto e solo. Non esisteva più nulla di lui forse, solo un buco al posto della testa e un fosso per quello del cuore. Non c'erano più pensieri, non c'erano più giudizi, svanito il dolore, svanito il senso di solitudine, di inadeguatezza, di inferiorità. Suo padre, il suo unico amico, non c'era più. Sparito.
Ricordò un prato e il tramonto, l'erba appena tagliata a primavera e il pallone da calcio troppo grande per lui. C'era suo padre a sorridergli, che lo incitava a calciare più forte, più forte. Ricordò se stesso avvolto in un morbido asciugamano, il corpicino fresco di borotalco, le mani grandi e attente di suo padre che si riempivano d'acqua fresca e gli lavavano il viso. Ricordò il suo abbraccio contenuto, una semplice mano attorno alla spalla e poche parole a sussurrargli che tutto si sarebbe sistemato, che le ragazze erano un mistero tutto da scoprire, che avrebbe avuto tempo, che ogni uomo, persino lui, finiva col cuore spezzato per colpa di una stronza insensibile. Ricordò il dispiacere che provava vedendolo sempre solo, sempre in difficoltà assieme agli altri, sempre preso di mira. Ricordò i film al cinema, le partite alla play. Ricordò il suo sorriso gentile e il suo viso arrabbiato, i suoi insegnamenti, il suo profumo e il suo calore
Lo pensò ancora un secondo, lo raggiunse. Un calcio alla sedia, una stretta di fuoco che gli mordeva il collo, gli occhi pulsanti e il mondo che diventava viola, poi nero. Poi nulla.


07/06/13

Tu ricordi, tutto.

Ci sono alcune promesse
fatte appena di sguardi.
Occhi neri che si perdono
in due smeraldi, belli da morire...

Futuri stretti in sussurri,
da bocche che si bramano,
due vite che s'incontrano,
due corpi che sono uno.

E un giorno il suo profumo,
che era soltanto tuo,
la pelle chiara, i sorrisi
gli abbracci... se ne vanno tutti.

Altri sguardi e altri occhi,
altre labbra e altre vite.
Tramontano i cammini sperati, si
perdono le promesse, volutamente, dimenticate.

di C.B.



24/05/13

The will of the gods

Buongiorno! Oggi un racconto andato in onda qualche tempo fa al concorso 3Narratori, ad opera di Salomon Xeno, che purtroppo nel mentre che gareggiava non è stato poi tanto fortunato. Ma come si suol dire, non è che la fortuna centri proprio davvero in questi ambiti. 
''Si suol dire questo? E da quando, scusa?!''
Comunque sia, dato che il concorso è finito da un pezzo, pubblico il testo sul blog. Non ha senso tenerlo rintanato nel pc, quindi ve lo beccate voi.
4000 parole, genere fantasy/fantascientifico, molta azione. Ed era proprio l'azione che volevo tentare di rendere cimentandomi in questo racconto, provando a trasmettere il dinamismo delle scene proprio come se le avessi vissute io. Chissà se un po' si nota... Vedremo! Ah, la trama c'è eh, non preoccupatevi, mica è una storia senza senso! 
E ora,  a voi! Come sempre attendo commenti, che mi servono sempre. Volate!...

The will of the gods
Aida correva, correva a perdifiato. Le gambe esili e pallide sporche di fango e violenza, i piedi scalzi, pochi stracci di seta bianca che svolazzavano nell'aria impestata di fumo. Capanne in fiamme a decine, donne e uomini riversati sulle pietre umide di pioggia e morte. Persino troll e giganti erano caduti come mosche. Gli dei li stavano punendo, punivano tutti loro per il sangue che inutilmente era stato versato nei secoli...
Una mano enorme le strinse la vita, bloccando la sua corsa e mozzandole il fiato, mostrandole il suo fetido muso e le zanne inferiori lunghe e lucenti. La piccola si divincolò scalciando come un diavolo, ma un essere tanto esile non poteva nulla di fronte a un mostro di quella stazza. Un rombo potentissimo sembrò sfondarle i timpani e un'orribile sensazione di vertigini le fece rimettere il poco cibo mangiato qualche ora prima.
Riuscì a guardare in basso appena un attimo, il tempo di osservare la Foresta del Sole farsi sempre più piccola sotto i suoi piedi, tenuti il più possibile vicino al busto per non permettere al fuoco bollente di ustionarla. Era in volo col suo rapitore, e attorno a loro altri cento di quegli scintillanti e sconosciuti animali si libravano in cielo, lasciandosi dietro scie di fumo denso e nero, che si mischiavano con la notte.

L'esercito percuoteva selvaggio tutto se stesso. Chi pestava la terra sotto i piedi, chi cozzava spade e scudi assieme, chi urlava dando libero sfogo alla paura, all'eccitazione e al dolore. La Pianura dei Salici non aveva mai visto uno schieramento tanto imponente. Le guerre, quelle fra le razze di Knothol, erano culminate anni prima, e una pace di convenienza aleggiava ormai da tempo in tutto il regno. Il motivo di tale alleanza Nair, ce l'aveva proprio davanti: gli dei. Cinque enormi macchine volanti stavano solcando il cielo, circondate da un denso alone di fiamme e nubi incandescenti, portandosi dietro un tale frastuono da impallidire anche il più feroce dei temporali. Pochi secondi ancora e il comandante Moira avrebbe dato il segnale ai cavalieri di drago, bardati delle loro più robuste armature, tutti schierati sulle alture dei Denti di Artik, che cingevano in un abbraccio rassicurante le forze di terra.
Zorah era tesa sotto di lui, lo percepiva chiaramente. Sbriciolava la terra sotto le zampe coi suoi artigli scuri, tracciando nervosamente solchi profondi mezzo metro. Ci fu il primo segnale del comandante, e tutti e centotrenta i draghi veterani del regno ruggirono e sputarono lingue di fuoco altissime, e la notte s'illuminò di colpo, e il sangue iniziò a ribollire in ogni singolo uomo, elfo, nano, orco, gigante, arpia, tritone, troll, gnomo, licantropo e mago. La Grande Guerra era iniziata. Al secondo segnale le vette aguzze tremarono da cima a fondo, e le enormi bestie alate coi loro cavalieri si fiondarono verso gli uccelli d'acciaio che gli dei venuti dal cielo si erano portati appresso.
I muscoli delle zampe posteriori della draghessa si fletterono al colpo di tacchi di Nair e i due si librarono nell'aria, sotto i battiti delle possenti ali d'ebano che lavoravano furiosamente. Le navi nemiche, mastodontiche e sospese nel vuoto, sputavano un vespaio di creature metalliche, che cadevano in gran numero al suolo ingaggiando feroci scontri con la fanteria, mentre in una quantità minore si libravano tra le nuvole attaccando lo schieramento aereo.
Il cavaliere, per reggersi meglio, strinse più forte le gambe attorno la base del collo di Zorah, e iniziò ad accompagnare le bollenti ondate di fuoco di lei scagliando saette dalla mano sinistra, mentre la lama affilata sulla destra troncava di netto quei fastidiosi insetti meccanici, appena più grandi di un lupo. La bestia virava furiosamente, perdendo e recuperando quota continuamente per schivare quel termitaio di mostri splendenti che intasavano il cielo e non imbattersi nei suoi compagni.
Settima e sesta Forza, spostatene il più possibile verso il confine nord della pianura. Cominceremo da lì. E' tempo di dare spazio ai nostri giovani iniziando dall'Accademia di Sahara.
La voce del vice comandante risuonò limpida nella sua mente e in quella dei suoi compagni di Forza, così come in tutti gli appartenenti alla sesta. Dovevano spostare il più possibile dei propri nemici verso il massiccio appostamento di cavalieri di drago dell'accademia del nord, composto dai più giovani, certamente testardi e inesperti, ma che possedevano una grinta e una fame di gloria tali da renderli avversari più che temibili.
<<Zorah! Verso nord!>> urlò Nair al suo drago, schermandosi dai finissimi raggi violetti che quelle creature sputavano senza sosta.
La bestia attese il dissolversi della barriera magica appena creata dal suo dragoniere, e sfruttò l'aerodinamicità recuperata per tuffarsi verso il suolo e prendere velocità, imitando l'altra ventina dei suoi compagni e inscenando quella fuga tattica che avrebbe attirato i nemici verso di loro. La barriera magica che di li a poco sarebbe apparsa alle loro spalle, sperava il cavaliere, avrebbe dovuto mettere fuori gioco un buon numero di quei bastardi.
Zorah ruggì assieme ai suoi fratelli alati, e ovunque riverberò il loro feroce grido di rabbia.

20/02/13

Stelle cadenti

Due di quelle enormi bocche rumorose mi stanno poco sotto i piedi. Masticano le grandi foglie verdi che al sapore, e io le ho assaggiate, sono disgustosamente amare. Mi piace starmene quassù, più in alto persino di questi giovani mostri dal collo allungato, che mi osservano per una volta dal basso. Si vedono bene le stelle e il mare, e le ultime sfumature viola e arancioni che il sole si lascia dietro affogando nell'acqua. Sono sola, e mi piace. Arriva il buio.
Quando scende la notte la seconda squadra inizia il lavoro, la prima invece torna a riposare. Ci vogliono gli occhi speciali per osservare nelle tenebre, e i giganti che dormono sono interessanti a vedersi così, perché ci si può meglio entrare per sbirciargli nei sogni. Mamma e gli altri lo dicono sempre Quel che noi siamo sta tutto lì, nelle pulsioni primordiali, nell'istinto puro che queste feroci bestie custodiscono nel dentro, ma io non sono poi tanto sicura del senso delle loro parole, non le intendo ancora. 

Le stelle mi piacciono, mi ricordano che presto le vedrò più da vicino, che siamo prossimi alla partenza, la mia prima. Io che ancora sono giovane queste meravigliose luci infuocate non le ho mai colte in tutta la loro bellezza.
Mi perdo con lo sguardo e i pensieri, poi noto qualcosa di strano, di nuovo. Una scia rossa, e poi due, e altre quattro che si alzano da terra, lontane, puntando dritte oltre la luna pallida. Mai viste stelle cadenti comportarsi così, andare al contrario.
Mamma crede che noi Uwak, e solo noi, non i signori Bariiah, proveniamo da queste creature: squamosi pachidermi corazzati, violenti alcuni, pacifici altri. Ha visto i loro sogni, li ha studiati, e ne è convinta. Ma io sono ancora piccola e non mi è dato di sapere troppo, né di capire. Forse chissà, ha ragione lei. D'altro canto le code pesate, i tri-cornuti e i nuotatori del fiume hanno gli stessi nostri colori, la pelle grigio scura, le nostre rughe. Ma che vuol dire poi, che eravamo così?
Quando le ho detto delle stelle cadenti della notte scorsa non mi ha creduto, e si è arrabbiata.

Queste piccole lucertole verdi amano mangiare i miei rios. Ogni tanto li faccio felici lanciandogliene qualcuno, ma poi mi stufo, perché piacciono di più a me, i rios, li voglio tutti per me. Ritraggo la mano infastidita e loro fuggono. Cos'è, li ho spaventati?
No, non posso essere stata io, ora ho capito. E' quella stella, penso. Non mi piace, la sento strana. Forse è perché è giorno. Quando mai si è vista una stella risplendere così fortemente nel mezzo del giorno, e competere col sole?
Mi incammino verso casa che le nuvole sembrano i petali dei fiori del fuoco. Fuori dalle cupole vedo scie viola sui muri, sui fili d'erba, sulle foglie secche. No, no... è pieno di morti. Sono tutti morti. Ho paura.
Io non avevo mai visto quelli come noi, morti. Non sapevo fossimo come le bestie giganti, o come i signori Bariiah. Che ci spegnessimo come fanno loro, che smarrissimo la vita. 
Ora... come riaccendo mia madre?
I suoi occhi sono bianchi, non mi vedono. Il suo braccio fine penzola dalla finestra, il corpo liscio è abbandonato sul bordo, circondato da molti altri. ''Mamma!'' le dico scuotendola, ''Mamma accenditi, mamma!'' sto urlando. Ma lei non si muove, non si riattiva. E' come le creature una volta abbattute, solo nessuno si prenderà la sua carne, nessuno la taglierà e la studierà. E se anche venisse io non glielo lascerò fare. Ma tanto, mi accorgo, non c'è più nessuno tra gli Uwak. E i signori Bariaah, dove sono? Sarà successo qualcosa a loro?
Lei mi aveva spiegato che noi non siamo uguali. Una volta, diceva, eravamo in guerra noi e i signori, e abitavamo in mondi diversi, lontani da questo. Quando venne infine la Grande Pace, i tempi gloriosi che ne seguirono furono prosperi come non mai per la nostra gente e la loro, e non c'erano limiti oltre le stelle a cui non potevamo aspirare. Un giorno però, i signori Bariaah scoprirono nel cielo infinito un piccolo globo lontano, di un blu così brillante che nemmeno la più preziosa tra le pietre della nostra regina poteva eguagliare. E in quel piccolo mondo, in cui io sono nata, vi erano i nostri antenati, di noi Uwak tutti, vivi e vegeti, e con le più grandi risposte alle nostre più intime e profonde domande. Venimmo qui, li studiammo assieme ai signori Bariaah, così da scoprirle quelle risposte, uniti sotto la stessa saggia guida, per la conoscenza e la forza, per il bene, per il futuro. 
Risposte che non conosco, che non mi sono state dette. Sono giovane, troppo. 
So però che noi non moriamo, che il nostro fuoco non si estingue, mai. Eppure... i corpi spenti di tutti miei Uwak non si contano, sono sparsi e perduti per terra, con le mie lacrime.

Corro nel sentiero, i rami mi graffiano, gli insetti mi irritano la pelle sudata, ho il fiato corto quando arrivo alla radura, vicino la scogliera. Voglio parlare coi signori Bariaah, voglio avvisarli del pericolo, avvertirli che siamo tutti morti. E mentre il sole si tuffa nuovamente in mare, laggiù alla fine dell'orizzonte, noto soltanto l'altra stella brillante, la stessa che questa mattina mi infastidiva nel cuore. 
Altre due stelle cadenti, di quelle strane, si alzano dal suolo, distanti, lasciandosi dietro una scia rosso fuoco e sparendo oltre le rade nubi di pece, che si stendono al polo nord celeste. 
Mi sento sola. Sono sola. Quelle non sono stelle, ma vanno loro incontro. Stupida io e tutti gli altri a non aver capito prima. Se ne tornano a casa i signori Bariaah, abbandonandomi qui. Se ne tornano con la risposta più ambita ben ficcata tra le loro traslucide orbite nere, nei loro crani sgraziati. La mostreranno ai miei poveri Uwak, lassù, a tutti quelli che non ho mai conosciuto. Anche loro conosceranno la morte...

A un tratto è di nuovo giorno. Questa sì, è una stella che cade. La più grande e bella che abbia mai visto. C'è silenzio. La terra trema. I giganti ruggiscono inquieti. Il mare si avvicina, rapido, terribile. Ora la stella è caduta. Chiudo gli occhi, terrorizzata. 
Penso a mia madre.

19/11/12

Risveglio violento

Risveglio violento
L'asfalto bagnato scivolava via assieme alla notte. L'auto di Michael era ancora piena della gioia del figlioletto, eccitato dai suoi eroi preferiti appena visti in azione sul grande schermo. Lei posò delicatamente una mano sulla gamba del marito, lui la guardò negli occhi, riscoprendosene ancora una volta perdutamente innamorato. Quegli occhi scuri come il buio lì fuori, nascondevano un segreto che l'uomo non riusciva pienamente a cogliere. 
<<Ricordati amore, devi ricordare...>> iniziò a sussurrargli lei. Le risa del ragazzino si facevano più forti, più irritanti alle orecchie del padre. <<Michael, ti devi ricordare.>> aggiungeva, con una smorfia di dolore che man mano le si dipingeva sul viso, <<Ti prego... Così mi fai male.>>. 
Lui continuava a guidare, chiedendosi dentro di sé cosa mai volessero dire le parole della sua donna, senza riuscire ad aprir bocca per porle quella sua domanda. Il bimbo, dietro di loro, ansimava più forte, tramutando le risa in grida, poi in gorgoglii soffocati, in lamenti insensati. <<Michael no! Fermati, fermati! Ci farai ammazzare!>>. 
Continuava a non comprendere, osservando confuso la moglie disperata e in lacrime, vivendo quel viaggio, in quell'auto, come se non fosse realmente lui ad abitare il suo corpo, incapace di ragionare e di intendere davvero quel che stava accadendo. Le gomme fischiarono sul cemento sporco e consumato, perse il controllo del mezzo, e accadde... piombarono tutti e tre nelle maledette fauci di un dirupo, nella bocca oscura e contorta di uno spaventoso mostro sanguinario.
Quando aprì gli occhi il mal di testa era forte, il dolore pulsava con insistenza alle tempie. Si guardò intorno, il cranio intero pareva rimbobare. Era steso, e gambe, petto e braccia erano fissati al letto mediante spesse fasce di cuoio nero. A vestirlo era una lunga camicia da notte ingiallita. Tutt'attorno balenavano i visi dubbiosi di una manciata di medici, muniti di mascherina verde, lunghi camici, e antiestetiche cuffiette color panna sul capo. Lo osservavano preoccupati parlottando tra loro, mentre rimbalzavano sui loro corpi slanciati le luci ad intermittenza di qualche strano macchinario a lato di quella che pareva essere una stanza d'ospedale.
<<Dove sono? Che è successo?>> si agitò Michael tentando di sollevare la testa dal cuscino.
<<Si calmi professore.>> lo bloccò uno di questi, premendogli fastidiosamente la fronte con una mano. << Richard, prendi il foglio nella valigetta.>> disse poi rivolgendosi a un suo collega più giovane. <<C'è di nuovo bisogno di mostrarglielo>>. 
Questi estrasse un piccolo pezzo di carta di cui si intravvedevano poche righe scritte a mano. Michael le notò appena con un'occhiata in lontananza, dopodiché la sua attenzione fu attirata dai diversi aghi installati sullo strano strumento che lo sovrastava, pronti a conficcarglisi nelle carni di avambracci e collo.

<<Fermi, fermi! Che cazzo volete da me?! Levatemi le mani di dosso!>> urlò stavolta scuotendosi con più vigore.
<<Sono solo tranquillanti professore, si calmi!>>.
Michael non ne voleva sapere. Si chiedeva dove si trovasse e chi fossero quelle persone. Non comprendeva perché fosse legato a quel modo e dovesse a subire una simile tortura. La storia dei tranquillanti non lo convinse nemmeno per un secondo. 
Lo scatto d'ira fu improvviso e brutale, tanto che tutti i presenti nella stanza reagirono prontamente scagliandosi su di lui per mantenerlo fermo. L'improbabile paziente ritenne quell'aggressività un ulteriore motivazione per diffidare degli sconosciuti. Non potevano essere dei semplici medici d'ospedale, questo era certo. Gli si riversarono addosso in quattro, e il professore, nonostante fosse legato e sopraffatto, non solo riuscì a strappare i lacci in cuoio che lo tenevano imprigionato al letto, ma sbalzò via anche i suoi aggressori con gli arti finalmente liberi. Volarono letteralmente per qualche metro in ogni direzione, sbattendo su tavoli, pareti e strumenti di lavoro sicuramente costosissimi. I due che non persero i sensi lo fissarono terrorizzati e impotenti, mentre aveva inizio la sua fuga tra i sinistri corridoi di quell'edificio.
<<Dove sono mia moglie e mio figlio!? Dove cazzo li avete messi? Dove cazzo sono?>> urlava ora il fuggiasco, percorrendo un intricato labirinto di passaggi e sale in mattonelle bianche e lucide, coperte da un pavimento nero come il buio stesso. Tentò di ricordare ciò che gli era successo pochi attimi prima, come fosse giunto in quel luogo. Ripartì dal cinema, da quella serata con la sua famiglia. Stava guidando, lo ricordava bene. E sua moglie e suo figlio si comportavano in maniera insolita. Poi l'incidente. Com'era finito in quel posto? Cos'era? Quell'ambiente era ben lontano dal tipico aspetto di una struttura ospedaliera. Non c'erano persone, l'aria era fredda e secca, e l'illuminazione irradiava gli occhi con irritanti riflessi amplificati dalle pareti stesse. Infine toccò alle sirene, che risuonarono in tutto l'edificio. 
Perse momentaneamente l'equilibrio, coprendosi le orecchie come per impedire a quel dolore di trapanargli i timpani. Sempre più preso dal panico, si rialzò e corse con tutte le sue forze in cerca di una via d'uscita, vagando a casaccio, fermandosi infine di colpo non appena vide lui: suo figlio. Era poco più avanti, a una decina di metri, sedato e intubato all'interno di un'enorme cubo in vetro. Non riprese nemmeno la sua corsa che improvvisamente, dal soffitto, sbucarono due spesse pareti mobili in metallo, sbarrandogli la strada sia davanti che dietro. Ora era in trappola.
<<Merda, merda! Fatemi uscire! Che cosa volete da me?!>> si sfogò tempestando di pugni i confini di quella prigione. In tutta risposta del gas iniziò a sgorgare da alcuni fori sparsi sul pavimento. In pochi minuti Michael si ritrovò completamente paralizzato, ma cosciente. Il muro che gli aveva occultato la visione del figlio tornò rapidamente nell'incavo nel soffitto, lasciando il passaggio ad alcune figure snelle, che lo raggiunsero.
<<Direttore, lo abbiamo fermato.>> disse un nuovo medico parlando a una minuscola ricetrasmittente stretta in mano.
<<Bene, sedatelo e mostrategli il foglio che ha scritto.>> fu la risposta che ne venne. <<Pregate Dio che  anche stavolta funzioni. Io sto per raggiungervi...>>.
L'uomo si avvicinò al professore, lo sistemò appoggiandolo con la schiena alla parete assieme a un compagno, e gli fissò la testa penzolante in modo da fornirgli uno sguardo su di loro. <<E' per il suo bene professore, non si preoccupi, sul serio!>> gli sussurò quasi dolcemente il più giovane dei due, iniettandogli una sostanza trasparente direttamente sul collo. Poi si tolse una pagina di quaderno piegata dalla tasca, la stessa già estratta pochi minuti prima della fuga, e la fece leggere al disgraziato, ormai quasi vuoto da qualsiasi pulsione.
<<Vede? Questo l'ha scritto lei professore. La scrittura è la sua, lo legga!>>.
Non c'è più alcuna speranza, la malattia avanza, la mia mente è sempre più annebbiata. L'aggravarsi della sindrome di Korsakoff crea ricordi erronei, si insinua nella mia coscienza facendomi credere a falsità e menzogne di ogni genere. Lui non le accetta, Lui le affronta. Sto diventando un pericolo per tutti. Betty e Michael hanno perso la vita a causa mia pochi giorni fa. Rileggendo questo più e più volte spero di convincermi in futuro della realtà dei fatti, e di accettare senza riserve la mia scelta: essere rinchiuso qui, sotto massima sorveglianza, per non poter più recare del male in preda alla follia. Posso fidarmi solo di me, di me adesso, di me in queste poche righe. E Lui non lo accetterà mai.
Ora il professore ricordava. Michael, il nome che andava ripetendosi ossessivamente nella testa come una cantilena, non era il suo, ma quello del figlio, frutto dell'amore tra lui e Betty, sua moglie. Li aveva uccisi entrambi molti anni prima, stritolandoli fra le sue mani. Era malato, gravamente e ben lontano da una cura efficacie. Prima c'erano stati i vuoti di memoria, poi le false visioni, sino a che non gli era succeduta una percezione della realtà completamente distorta e alterata da quella percepita da chiunque altro.
<<Ben arrivato direttore!>> esclamò il medico con ancora la ricetrasmittente stretta in mano.
<<Portatelo nella sua stanza. Questa situazione è sempre più penosa...>> ordinò sconsolato l'uomo.
Il professore ebbe uno scossone improvviso. Fissò il direttore con tutto il suo odio, dritto nell'unico occhio non coperto da quella benda sgualcita. Iniziò a digrignare i denti, maturando un'ira profonda e irragionevole che gli si scatenava dalle più profonde viscere della sua anima.
<<Presto allontanatevi, chiamate la squadra di contenimento!>> gridò Fury in preda al panico.
Le iridi del loro paziente in fuga si tinsero di un brillante verde smeraldo.
<<Datevi una mossa diamine! Banner è fuori controllo!>>.
Un urlo brutale e potente riecheggiò tra le mura dello Shield.