15/01/24

A cosa serve soffrire?

Questi primi giorni del nuovo anno sembrano volermi far riflettere su una domanda: a cosa serve soffrire?

La questione del dolore, fisico o mentale che sia, e del perché lo si debba affrontare, mi sta seguendo attraverso tre opere totalmente scollegate tra loro: il romanzo Il mondo nuovo di Huxley e i film Saltburn e Perfect Days.

Tre storie che apparentemente non c'entrano davvero niente l'una con l'altra ma in cui invece, a me, pare d'aver trovato un filo conduttore. Un filo che riguarda proprio la domanda iniziale.


Vi spiego in brevissimo di cosa parlano, così poi capite il senso del discorso.

Ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley, romanzo scritto nel 1932, si racconta di una società futura in cui tutto è perfetto proprio perché non esiste più la sofferenza.
Le persone nascono in provetta, condizionate psicologicamente e farmacologicamente per occupare con soddisfazione il proprio ruolo, la vecchiaia non esiste e piaceri come l'intrattenimento, il sesso e lo sport sono sempre garantiti.
E se mai dovesse esserci qualche turbamento c'è il soma: una droga sintetica legale che, a seconda del dosaggio, ti toglie ogni ansia, ogni preoccupazione, ogni dolore.

In Saltburn invece (la trama non ci serve e non faccio spoiler) c'è una scena in particolare che ho trovato molto potente.
Vediamo una famiglia, colpita da una tragedia improvvisa, totalmente incapace non solo di affrontare le incombenze pratiche che tale evento richiede, ma anche di ammetterne l'avvenimento. La sofferenza viene subito seppellita sotto a uno strato di chiacchiere inutilissime.

E infine Perfect Days, film di Wim Wenders (vi consiglio di vederlo al cinema) che ci porta a Tokyo mostrandoci la vita di Hirayama, un signore di mezza età che per lavoro pulisce i bagni pubblici. Immersi nella quotidianità di questo signore, così quieta e organizzata, quasi fosse un rituale, ci si chiede continuamente se il segreto della felicità non stia davvero nelle cose più semplici.

Ora, partendo da Il mondo nuovo, è inevitabile domandarsi se la sua non sia una prospettiva desiderabile. Dopotutto, un paragone con ciò che viviamo oggi lo possiamo fare.

Possiamo facilmente scappare da ciò che ci infastidisce o ci fa male: abbiamo gli smartphone che ci distraggono, le varie piattafome di streaming che ci intrattengono, le app di incontri per la solitudine, i video giochi e lo sport per la competizione...
In generale viviamo in uno stato di benessere tale per cui è possibile acquistare a prezzo modico dei passatempi che ci salvino, anche solo per un po'. Per non parlare, ovviamente, delle soluzioni farmacologiche (anche se il soma presentato da Huxley è  privo di effetti collaterali).

Queste soluzioni a buon mercato diventano, come in Saltburn, un facile ripiego per evitare di dover soffrire. Corpo e mente, che altrimenti ne sarebbero torturati, vengono invece sollevati, rimandando il dolore a più tardi, da qualche parte nel futuro.
Ma, proprio come ci viene mostrato con grande orrore, quella famiglia incapace di guardare in faccia le proprie sofferenze, diventa mostruosa, si tramuta in qualcosa di disumano.

Soffrire, quindi, serve forse a renderci umani?

Ogni giornata di Hirayama, in Perfect Days, inizia con un respiro profondo e un sorriso rivolto al cielo. Eppure, a ben guardare, lo sappiamo che qualcosa tormenta l'anima di quest'uomo. Un dolore che probabilmente, a differenza della società pilotata di Huxley e della famiglia deumanizzata di Saltburn, viene lavorato in tanti piccoli rituali che ci sembrano indesiderabili: la solitudine, i silenzi, il duro lavoro, le letture serali, i pasti consumati per conto proprio, la ripetitività delle giornate.

L'idea che mi sto facendo è che sia impossibile non soffrire, ma che sia facile e anche pericoloso rimandare continuamente le questioni che ci fanno stare male.
Proprio perché la sofferenza è parte della nostra natura, anestetizzarla col soma dei nostri tempi non fa che distruggere pian piano la nostra anima, annichilendo ciò che rende noi così speciali e particolari. 

Quindi sì: per quanto mi riguarda, soffrire potrebbe non tanto
servire a renderci umani,
ma
essere parte di ciò che ci rende umani.

Sul come "soffrire bene", beh...
Non nego di essere molto affascinato da quanto visto in Perfect Days.
Affrontare il dolore in un modo che mi calzi bene, magari costruendo dei rituali che lo dividano in parti più piccole. Più semplici da gestire. Più utili per portarmi avanti rimanendo intero.

28 commenti:

  1. Il dolore, a parer mio, ci rende umani. E soprattutto ci ricorda che siamo vivi..e perché lo siamo.
    Bellissimo pensiero comunque! (Una panchina su Pemberley)

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    1. Condivido quel che dici.
      Comunque consiglio Il mondo nuovo se non l'hai letto. Anche se non so se sia il tuo genere ;)

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  2. Senza la sofferenza sarebbe impossibile conoscere la felicità.

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    1. Ciao Gus! Guarda, in merito a quanto dici giusto ieri (è davvero un tema ricorrente sti giorni per me) stavo leggendo in un altro romanzo questo passaggio:
      soffrire meno era vero che quivaleva a silenziare il dolore ma significava anche mettere fuori uso una parte di sé, la stessa che, fatalmente, coincideva con la capacità di gioire.

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  3. hai un cervello bacato ma fai interessanti riflessioni.
    e mi piace come riesci a legare con logica tre elementi assai diversi tra loro.
    massimolegnani

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    1. Bene bene Massimo. Felice di aver fatto riflettere anche te ;)

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  4. Non conosco il romanzo e i film, ma per rispondere alla tua domanda, credo che soffrire non serva proprio a nulla, altro che! Ma è una condizione insita in ciascuno di noi.
    A volte sembra proprio ce lo andiamo a cercare il dolore.
    E sì, ne usciamo più forti. Ma a che prezzo?

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    1. Già, sono arrivato anch'io a questa conclusione.
      Comunque sì, capita di andarselo a cercare, ma credo inconsapevolmente. Magari come conseguenza di comportamenti o scelte che all'inizio non ci sembrano problematiche. E come dici, magari ne usciamo fuori poi, dal dolore, ma pagandola cara.

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  5. Dove e quando lo scorgi il tormento di Hirayama?
    Poi ovvio che guardandola da fuori uno dice; preferisco che mi investano passando due mesi in ospedale con una protesi che mi immobilizza la spalla o due mesi alle Maldive tra bagni di sole e cocktail? Ovvia anche la risposta. Ma il dolore esiste, la sofferenza anche, l'imponderabile domina. Quindi bisogna imparare solo a somatizzare, sopportare, ammorbidire. Non decidiamo nulla.
    E se uno si addormenta dopo i primi venti minuti di Perfect days.. importante è andare al cinema con accanto un'anima sensibile che ti svegli al momento giusto..

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    1. Credo durante tutto il film, nelle espressioni che fa e in come si comporta. Ma in particolare nella scena dell'abbraccio con la sorella e soprattutto sul finale, quando fa "cadere" un po' la maschera e scorgi un po' meglio tutto quel che c'è sotto.

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    2. Ti aspettavo sulla mia dettagliata analisi di Perfect days.. ;)

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    3. L'avevo letta sì, ma come avrai notato in sto periodo ho postato poco (anzi zero) e ancora meno ho letto altri blog. Perdonami. Però sei venuto tu da me a parlarne, quindi in un modo o nell'altro ce l'abbiamo fatta. Anche se , pure con questa risposta, sono lentisss S S I M o

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  6. Hai ragione nel dire che in qualche modo rimandiamo la sofferenza, o comunque cerchiamo di anestetizzarla in qualche modo, ma scapparvi è impossibile e penso faccia anche bene alle volte. Certamente non deve diventare patologica e soprattutto dobbiamo imparare anche a leggerla e comprenderla, affinché non sia fine a se stessa.
    Su una cosa non sono d'accordo: credo infatti che la famiglia Catton in Saltburn sia sempre stata disumana e superficiale, e coerentemente anche i momenti di dolore non vengono compresi

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    1. Ciao Pier! Concordo su quanto dici.
      Per quel che riguarda Saltburn idem, nel senso che è sempre superficiale e disumana ma in quella scena in particolare secondo me toccano proprio l'apice. Diciamo poi che qui ho appositamente citato solo quella, giusto per non fare spoiler e perché lì il dolore è loro, non di altri personaggi che ruotano attorno a questa famiglia.

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  7. Non è possibile evitare il dolore, prima o poi arriva nella vita, purtroppo, i più fortunati riescono a evitare grandi dolori prima dell’età adulta e io ti parlo da fortunata, ho perso mia madre a 31 anni all’improvviso e lo considero un grandissimo dolore (ma ringrazio Dio che non mi sia successo quando ero bambina o anche più giovane, a 31 anni ero in grado di affrontare il dolore e la mia vita era già abbastanza stabile).
    Dopo la morte di mia madre ho vissuto con una prospettiva diversa, poi sono arrivati altri dolori ma credo di averli affrontati con maggior consapevolezza, ciò non vuol dire che sia stato più facile. Tuttavia proprio per i dolori vissuti ho un rapporto con la vita positivo e solare, riesco a godere il buono di ogni giorno che vivo. Oggi possiamo distrarci dal dolore (oppure dalla paura del dolore) ma fino a un certo punto.

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    1. Direi che il tuo esempio rappresenta bene quel che penso. Alla fine il dolore è parte della vita e non per forza ha si riesce a trarne qualcosa di positivo. Però, essere consapevoli della sua natura (o meglio, della nostra) ci può almeno evitare l'atteggiamento folle della fuga a tutti i costi. Da lì dubito possa venirne qualcosa di positivo.

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  8. Non siamo nati certo per soffrire. La sofferenza, sia di natura fisica che spirituale, è un accidente che, giocoforza dobbiamo affrontare. L' esperienza del dolore si dice possa farci crescere ma può anche abbatterci con estrema durezza. Il dolore richiede forza per esser superato, non sempre ne abbiamo e perciò è sempre una prova di grande difficoltà per ogni essere umano.

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    1. È vero. Un conto però è saperlo e non avere la forza di andare avanti, un altro è tenere la testa sempre rivolta altrove, evitando a tutti i costi di affrontarlo.

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  9. È impossibile sottrarsi al dolore ,alla sofferenza ,per ognuno prima o poi arriva e forse nemmeno ci si rende davvero conto della forza che molti di noi dispongono per cercare di superare tale dolore.Un lutto di una persona cara, ad esempio ,sembra difficile da superare nell'attimo che accade , e di certo dentro si sente sempre il vuoto che rimane...ma cosa davvero succede dentro di noi per tenerci in vita dopo la sofferenza è un mistero che non molti si pongono.

    Ho letto commenti bellissimi su questo post...io non ho visto però il film di cui parlate e che sicuramente avrà un collegamento,non è detto che in futuro non lo veda:)ciao

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    1. Grazie per questa riflessione. Sì, devo dire che ci sono stati tanti interventi interessanti, e infatti vi sono molto grato.
      Riguardo i dolori dei lutti dici bene... è proprio incredibile quanto siamo capaci di affrontare e metabolizzare.
      A proposito di questo comunque, mi è venuto in mente un passaggio del corso di sociologia dove si parlava della funzione dei funerali. Momenti codificati in cui il dolore viene socialmente accettato e anzi, incoraggiato nel suo bisogno di sfogarsi, facendo si che quella che potrebbe è trasformarsi in una devianza (un comportamento pericoloso per la vita in comunità, per esempio perché ci si strugge senza tempi e limiti e si inficiano rapporti, performance lavorative ecc) diventi una varianza, ossia un comportamento che differisce dal nostro status quo ma che trovando la sua dimensione ci fa ritornare sui binari" giusti."

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  10. credo sia impossibile non avere a che fare col dolore, entra nella nostra vita col passare del tempo, da lì in poi sta a noi capire come conviverci, rielaborarlo e raccontarlo

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    1. Già. Sta a noi. In parte siamo soli in questo, anche se chiaramente ci si può sostenere a vicenda. Però il come viverlo è cosa farne alla fine è una soluzione molto intima.

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  11. Davide spero non abbandoni nuovamente il blog,e spero vada tutto bene:)

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    1. Tutto bene e non abbandono! Don't worry ;) Solo cose case libri auto e fogli di giornale che mi intralciano🤣

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    2. Scusa, sai, non ti vorrei mai disturbare
      Ma vuoi dirmi come questo può finire?😂😂

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  12. Perfect days, un film che ahimè io ho trovato noioso (alla Wenders maniera: non sono una fan accanita del regista, sebbene in passato abbia apprezzato altri suoi lavori). Con la sofferenza devi provare a convivere, se no è lei che ti fa fuori: non so se grazie a essa s'impari a vivere meglio, ma so che comunque è una tappa della vita umana che fa crescere e insegna che poiché, quando interviene, non si può evitare, allora occorre (e conviene) "farci amicizia" ;)

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    1. Io conoscevo solo questo di suo, ma dovrò recuperare altro.
      Su quanto dici comunque la penso anch'io così. Poi la cosa difficile è passare dalla volontà e l'idea alla pratica.

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