28/11/25

La caduta di Icaro

Due ore di luce, poi sarebbe scesa la sera. Un vento fresco soffiava da Nord, tirando il veliero lungo la costa. C'erano ancora i contadini al lavoro, le greggi al pascolo nei prati profumati d'estate, i pescatori, al largo, lontani dalle proprie mogli e dai loro figli e dalle loro figlie, che correvano come scalmanati per le vie del paese. E c'era Etna, sopra tutto, sopra tutti, che stava zitto. Da quanto? Almeno un paio di mesi, perché c'era da stare a guardare, sì, e da attendere, ché era finito il tempo delle chiacchiere e c'era ora quello dei fatti, fatti di altri, va bene, ma fatti straordinari e perciò da contemplare in silenzio, ché se le cose andavano come si sperava, qui si vinceva una scommessa pazzesca, s'invertiva l'ordine della natura e in quel caso, lui, Etna, avrebbe detto cosa? Avrebbe fatto cosa, al riguardo?
Due ore di luce, poi sarebbe scesa la sera. Un vento fresco soffiava da Nord, tirando il veliero lungo la costa. E proprio lì, a poppa, nel mare, cadde un gigante che affondò negli abissi, nel silenzio generale. 
Etna esclamò un colpo, un boato violaceo che, vaporoso, esplose di fumo caldo, di stupore, omaggiando il grande Dio Sole in una luminescente ovatta dorata. La vita, dunque, andava avanti lo stesso. I fatti, non erano stati fatti. L'uomo, se pur gigante tra gli altri, primo nei cieli tra tutti, aveva azzardato forse troppo e così, dai glaciali vestiti indaco da cui era precipitato, sferzava ora le schiume e le onde, ignorato dai suoi, visto solo dalla montagna. A Etna ancora scorrevano, tra magmatiche venture, le immagini di quelle sue gambe, titaniche come alberi maestri, rompere i flutti più potentemente dei galeoni, e di quel corpo lucido, brillante di audacia, luminoso di sudore, di calore, di bramosia e infine di paura, e di come aveva sofferto bruciandosi ai raggi, di come si era scottato toccando appena un attimo Dio. Etna ne era assorto. E anche soffocato. Non sapeva se urlare o starsene zitto. Quanti sentimenti gli ribollivano dentro. Quante pressioni inattese lo scuotevano nel profondo. Si domandava perché nessuno l'avesse aiutato. Si chiedeva come fosse possibile che nessuno lo avesse visto tentare, osare, fallire. Ma quelli, gli uomini, quelle scimmie senza creanza, nemmeno sapevano, nemmeno sognavano, e badavano invece ai loro affari di misero conto, alle vacue quisquilie che Etna, volendo, poteva spazzar via con un solo sbadiglio. Li detestava. Oh, come li detestava. Perché ammirava invece il gigante affondato. Il gigante che almeno per un attimo, aveva persino volato. E ne aveva invidia, prima, quando forse poteva vincere la Terra, quella che lui invece soffriva come una catena, una gabbia, una prigione invincibile, e ne aveva stima ora, perché almeno per un momento, lui, il gigante di nome Icaro, anche se aveva fallito, era stato libero come nessuno mai.

La caduta di Icaro, di Pieter Bruegel il Vecchio

1 commento:

  1. Un cambio di prospettiva fascinoso, ci sta bene anche il nostrano Etna anche se un vulcano cicladico sarebbe stato più consono, forse reale testimone. E mi piace il linguaggio romanzesco ("oh, come li detestava") e toni classici che meglio si addicono a eroi e sconfitti, e al gigante sopito che ammira in un ultimo colpo di fragile ala, azzardo e luce infinita.

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