10/04/21

Open Minded | Vagando per le periferie di Giacarta (di Luca Salvadore)

Eh sì!
Non solo torno ad aggiornare il blog, ma lo faccio rispolverando una rubrica a cui tengo particolarmente, ovvero: #OpenMinded!

Per chi non lo ricordasse (o nel malaugurato caso capitasse qui per la prima volta) #OpenMinded è composta da guest post e vuole far conoscere esperienze, abitudini, passioni e credenze che di solito sono ritenute lontane dalla rassicurante quotidianità.

Oggi allora eccoci in compagnia di Luca Salvadore che ci racconterà di un viaggio speciale tra le periferie di Giacarta! Pronti a viaggiare con lui?
Allora tre, due uno... Aprite le vostre Menti!

Indonesia, più di quindicimila isole, centinaia di idiomi ed etnie. Quasi 14.000 km di distanza a piedi, nel caso qualcuno pensasse di affrontare un viaggetto sulle proprie gambe.
Il piano è chiaro, perlomeno in parte, visto che sappiamo che la prima settimana è a Bintaro (sobborgo di Giacarta), la seconda a Sumatra (a grandi linee tra Pekanbaru e Padang, seguendo l’Equatore, tagliando l’isola a metà da est ad ovest), la terza di nuovo nella capitale.
L’attesa è di quelle importanti, essendo per ambedue il primo viaggio in un Paese extraeuropeo oltre le sei ore di volo. Ventiquattr’ore di viaggio, contando le otto ore di scalo a Doha. Scalo avvenuto in condizioni climatiche estreme, forse quindici gradi. Raccomandiamo, pertanto, di preservare la copertina della Qatar Airways, onde evitare raffreddori di stampo desertico.
Undici mesi prima abbiamo aderito al progetto “Insieme per la Missione”, organizzato dai Padri Saveriani di Vicenza. Un incontro al mese per nove mesi, ed esperienza lontani dal nido di casa, solitamente tre-quattro settimane.
Il mio compare di viaggio, amico da anni in realtà, ambiva da principio all’Asia, paese noto per meditazione, sovrappopolazione, consumi di riso pari a quelli di birra in Germania, arti marziali. Tipico esempio di pregiudizio che portiamo in dote noi europei: difatti, l’Asia è grande, non a caso la meditazione non è una caratteristica particolarmente indonesiana, come non tutti i tedeschi bevono tre litri di birra al giorno, e non tutti gli italiani suonano il mandolino mangiando tranci di pizza.
Siamo preparati, consci di cosa poter mangiare e cosa no, vaccinati in ogni dove (febbre tifoide, epatite A, meningite, questa aggiunta causa la mole di viaggi di lavoro che vivo ogni anno).

Quando io ed il mio compagno di viaggio Luca, stesso nome e (quasi) stessa età, arriviamo a Giacarta, notiamo subito una delle colonne portanti del popolo indonesiano: l’accoglienza.
Tanti piccoli uomini, con un grande cuore, incontro a noi. Ben due automobili, dotate di aria condizionata a bomba e svariati snack.
Subito, però, il sottoscritto paga l’eccesso di foga per l’andamento positivo del viaggio. Quando l’altro Luca (d’ora in poi il “Zorzi”) si rinfrescava in bagno, vado a prelevare d’impeto la sua valigia da 20 kg sul nastro, senza trovare subito la sua simpatica maniglia.
Risultato, prima notte con mal di schiena. Scopro, così, che il quintale di medicine portate non era sufficiente: manca di antidolorifico, che il buon Zorzi mi presta, in cambio di qualche bagnoschiuma ereditato dagli hotel visti perlopiù per lavoro quest’anno.

A Bintaro alloggiamo in una sorta di seminario regionale, dove ventuno rampanti indonesiani, dalle più svariate isole, affrontano un percorso di discernimento vocazionale che, potenzialmente, li porterà a diventare padri saveriani.
Per capirci, un tipo di prete con vocazione missionaria. I saveriani, difatti, si caratterizzano per una grande dose di tenacia e testardaggine, atletismo e simpatia, tanti fatti e pochi fronzoli.
Esemplari religiosi perfetti per inoltrarsi, perlomeno come avranno fatto a suo tempo, in luoghi a loro ostili. Difatti, quando giunsero in Indonesia mezzo secolo fa il cattolicesimo era praticamente inesistente. Ad oggi, rappresenta comunque una minoranza, seppur attiva in tutti gli ambiti (anche di volontariato), in un mondo a netta prevalenza islamica. In particolare, a Giava, l’isola su cui giace Giacarta (13 milioni di abitanti), in prevalenza c’era una maggioranza netta induista, il che ha creato uomini particolarmente mansueti nell’animo.
Questi seminaristi, maggiorenni, sono guidati da un team di religiosi che vede come principale responsabile tale Alfons. Pensate a Vasco Rossi. Mettetegli gli occhi a mandorla.
Oppure, pensate a un cinese con carnagione più scura che parla come Vasco Rossi, ok ci siete!
Sorridente come Michelle Hunziker, carattere forte come un guerriero epico, intelligente come un fisico del Cern. Proprio così, tale Alfons, padre indonesiano di 37 anni con trascorsi parmensi (sei anni almeno tra rosari e prosciutti), è la persona che ha guidato buona parte del nostro percorso. Con perfino il vizio del fumo (di sigaretta).

Nel sobborgo di Giacarta in cui ci troviamo, che ad occhio potrebbe avere la stessa popolazione di Padova, c’è un bel condensato di vita cattolica: le scuole, la chiesa, i campi da calcio, il seminario, gli enti di volontariato. Le persone che vi girano attorno sono innumerevoli e, nel caso del volontariato in “campo medico”, si annoverano anche persone delle altre religioni.
L’Indonesia è un ottimo esempio di integrazione: colori diversi, popoli diversi, religioni diverse, tutte non dico amabilmente conviventi ma comunque con buona dose di accettazione generale.
Certamente i punti di unione non mancano, dai piatti a base di riso e salse piccanti, alla semplicità del vivere, al considerare l’Occidente un mito (eccessivo, a maggior ragione perché i più non vi sono mai stati). L’inglese è abbastanza diffuso tra i giovani più colti, ma non a livelli eccelsi.
La prima settimana vola letteralmente via, con ritmo incessante. Sveglia alle 4 del mattino, grazie ai canti emessi dal megafono delle moschee vicine che, per uno con sonno leggero come il mio, emettono la condanna ad una sveglia prematura.
Colazione in gruppo, poi visite alle varie scuole cattoliche, le quali sono riconosciute per l’alta qualità dell’offerta didattica, inglobando di fatto studenti di ogni estrazione sociale e religione.
Il primo impatto è sconvolgente: io e Luca siamo travolti da una curiosità e da un interesse strabiliante, come fossimo Ronaldo e Messi. Avremmo desiderato per anni un interesse simile dalle ragazze italiane, ma sicuramente questi bambini ci hanno travolti.
Non sappiamo i motivi di tale entusiasmo, dai quali ci sentiamo di escludere a priori una certa bellezza estetica. Da quello che abbiamo inteso, non solo i bambini ma gli adulti in genere, sono curiosi per: l’altezza del Zorzi (lì sono piuttosto bassi), il fatto che l’europeo non va molto a visitare i sobborghi di Giacarta (di conseguenza, molti di loro non avevamo mai visto degli “orang bulè”, i bianchi occidentali), i miei occhi azzurri, la mia barba più folta dei loro quattro peli sotto il mento, il fatto che non erano soliti vedere uomini occidentali non preti in visita in luoghi tutt’altro che turistici, il fatto che degli occidentali parlassero un minimo di bahasa indonesia (ok, abbiamo imparato tre frasi fatte, ma le pronunciavamo benissimo!).
Ad ogni modo, scatta l’operazione selfie. I like in Facebook fioccano come le note di chitarra in un concerto degli Iron Maiden, le persone a casa ci chiedono che beata fava stiamo combinando a 14000 km da casa. Le ragazzine ci fermano per strada per una foto, che poi vantano con le amiche appena ci giriamo. Le stesse amiche che poi ci inseguono per altre foto. Che vantano con nuove amiche, che ci inseguono per altre foto, così via ogni santo giorno. Divertente, non lo nego, ma dopo un po' stanca! Anche perché non ho i miliardi di Ronaldo e Messi.
Capitolo pranzi (e cene). Intanto, in ogni luogo visitato siamo dotati di regalino (ad esempio, portachiavi in legno). Poi, bevande del posto (acqua confezionata e the). Per concludere degli involtini di carne, riso, salse piccanti di ogni genere, verdure piccanti di ogni genere, pesce in salsa piccante di ogni tipo. Riassumendo: squisite salse piccanti con anche del cibo. Tutto senza grandi limiti di quantità, grazie Indonesia!

Da principio, comprendiamo alcune cose che non mancheranno nel futuro: portachiavi per le chiavi, le maniglie dell’amore, una certa dipendenza da consumo eccessivo di riso. I pomeriggi si susseguono con visite alle più svariate realtà, ogni spostamento condito da ore di macchina o scooter. Il traffico è incredibile, infatti. Senza regole, ma nessuna auto o moto ammaccata. Vi starete chiedendo come è possibile!
Ebbene si, là vige il rispetto, il darsi la precedenza, l’avvertirsi con il clacson quando si è in arrivo. Non ci si arrabbia, si accetta un po' tutto e, soprattutto, si riconosce l’autorità del vigile.
Piano, non fraintendetemi, non parlo del nostro vigile in divisa. Ma di ragazzi, perlopiù poverissimi, che agli incroci prendono il fischio e regolano un centinaio di motorini in un colpo solo, senza che nessuno batta ciglio, accettando pochi cents in cambio. Tanto basta per campare, a quanto pare. Avremmo molto da imparare a livello di approccio alla guida: stay calm, stay relaxed, sta bon, ostregheta!
Abbiamo anche provato l’ebbrezza di salire su svariati scooter, dotati di motore (nemmeno troppo scarso), relativamente comodi. I primi frangenti della prima volta erano un po' forti, a livello emozionale, ma dopo pochi km ci pareva di essere uno di loro. Sembrava rischioso, ma era meno pericoloso del girare da noi in automobile.

Le sere, per concludere, partecipavamo o al calcetto del luogo (secondo sport nazionale, ed essendo tutti piccini e veloci, non pensate di andar là a fare i Del Piero del caso) o a serate di preghiera in famiglia, che si concludevano con quanto già enunciato: foto, selfie, salse piccanti con del cibo.

A mezzanotte a nanna. Il letto è dotato di rete bianca per lasciar fuori ospiti indesiderati (ergo, zanzare, che comunque mi hanno punto almeno venti volte in venti giorni, grazie ai litri di Autan tropicale addosso ed ai pantaloni lunghi). Anche la finestra ha una zanzariera, con tanto di buchi per non lasciar fuori troppe zanzare, ma manca di climatizzatore. La sudata è inclusa nel prezzo. Per fortuna, avevo portato con me più t-shirt (perlopiù bianche), che capelli sul capo.
La camera ha anche altri comfort: bagno con doccia, scrivania, armadio con lucertola parlante. Non ridere, non sto scherzando, uomo/donna di malafede. Tale lucertola, la notte, emette dei gemiti. A volte la sento così forte e chiara che mi chiedo se mi stia comunicando veramente qualcosa. Del tipo, hai un panino con la sopressa? Non pensate che gli insaccati siano molto diffusi in Indonesia. Oppure, hai una Guinness figliolo? Stesso discorso precedente. Forse, un’altra ragione per cui guidano “bene”, è l’assenza di alcool nelle vene.

Devo, però, trattare un argomento per il quale devo una promessa alla padrona di casa, gravemente malata. Si chiama Miriam, di stirpe cattolica e giavanese. A Giacarta c’è un importante ente di volontariato, legato alla parrocchia di San Matteo, che ha con sé un team di medici e infermieri (cattolici, musulmani, buddhisti), i quali gratis nel tempo libero vanno a visitare malati particolarmente indigenti. Con loro anche svariati laici, capeggiati da una donnina (Lucia) cinquantenne indonesiana alta un metro e quaranta esagerando, che hanno il compito di portare le medicine a tali malati.
Così, la seconda domenica di agosto 2017 partiamo con i nostri scooter per visitare due case con malati. Io e il Zorzi ci dividiamo, ognuno per orizzonti differenti (unica volta in tre settimane, per il resto sempre insieme come Onlio e Stanlio).
Con me Lucia, le due figlie di venticinque anni, e tre ragazzotti trentenni come me. Io salgo sullo scooter di Paulus (lì, la maggior parte dei cattolici ha nomi latini). Paulus ha trentadue anni, fa il taxista, gioca a calcio nel tempo libero ed ha un cuore grande.
La sua guida è navigata, con lo scooter riesce a fare slalom al mercato, senza far cadere nemmeno un frutto esposto. Entriamo tutti in scooter in una vietta piccina, poi in una più piccola, poi in una così piccola che praticamente camminiamo con lo scooter rasentando i muri delle capanne.
Lì il quartiere assume dei connotati di maggiore povertà rispetto a quanto siamo soliti, e le persone mi guardano stranite. Penseranno che sono un medico occidentale professionista, o solo uno che ha la madre che si è concessa per sbaglio a un turista, mettendomi così alla luce, chissà.
Arriviamo in una casa, scendiamo. Ci accoglie un settantenne completamente sordo, ma sorridente. Con lui, la figlia quarantenne disabile e, a terra, una donnina piccina piccina di settantacinque anni, Miriam.
La stanza è praticamente vuota, e lei giace sdraiata su un tappeto, con un cuscino sotto la testa. Ci sono due foto al muro di paesaggi: uno è Giava, l’altro Venezia. Ed una radio, che emette canzoni locali (che non metterò mai nel mio ipod, con tutto il rispetto).
Mi presento, con una delle tre frasi imparate a memoria, dicendo “Sono Luca, vengo dall’Italia, e mi piace mangiare la rana”. La signora subito ride, vedendo questo curioso esemplare di uomo occidentale che parla la sua lingua e dichiara da principio di apprezzare le rane.
I miei aiutanti le spiegano che, più o meno, vengo proprio da Venezia. Allora lei dice che le sarebbe tanto piaciuto vederla, ma nella sua vita non ha mai avuto i soldi per lasciare l’isola.
Ha realizzato vestiti e collane per anni, badando alla figlia disabile, finchè i problemi di cuore non sono diventati così gravi da costringerla praticamente a star ferma tutto il giorno, assumendo le medicine che il team le porta ogni settimana gratuitamente.


Non c’è assistenza sociale, pertanto la figlia è abbandonata a sé stessa e costretta a una vita in cui non può rendersi utile in alcun modo. La madre mi tiene una mano, e non la molla fino alla fine della visita.
Diciamo tutti assieme un Padre Nostro, ed una preghiera silenziosa da dedicare a qualcuno a scelta. La signora mi dice che è lieta per quello che il team sta facendo per lei, che Lucia e le figlie sono favolose, e che non avendo i soldi per vivere quelle medicine gratuite sono la sua salvezza.
In pratica, l’intera famiglia tira avanti grazie ai padri saveriani ed ai loro collaboratori laici, anche per il cibo. Le chiedo solamente se posso fare qualcosa, e lei dignitosa, con la sua mano forte con la mia, mi dice semplicemente “Quando tornerai in Italia, racconta cosa hai visto”.

Si possono trarre tante conclusioni su queste tre settimane, indubbiamente molto belle ed uniche. L’Indonesia, nel complesso, non è un paese del terzo mondo. E’ un paese in via di sviluppo.
Ma, parlando, di 17000 isole, non si può troppo generalizzare. Vi sono, infatti, città moderne ed altre meno. Zone nella giungla dove ci sono persone che vivono come cento anni fa, malgrado il gel in testa ed il profilo facebook.

Ci sono settori dell’economia che sono floridi, e la collaborazione con gli altri paesi asiatici pare essere proficua. Però, al contempo, vi sono anche baraccopoli, e rifiuti bruciati per strada.
Alcuni si arricchiscono, altri rimangono indietro. Ad ogni modo la comunità cattolica è solidale ed orgogliosa, di conseguenza la qualità di vita ne beneficia, grazie a sostegno reciproco ed intraprendenza, nonché un livello di istruzione più alto se confrontato con altre realtà locali.
Avremmo potuto fare mille altre cose, come stare con i cannibali di Papua (senza poi far ritorno a casa), visitare i templi bellissimi di Giava, o vedere le spiagge travolte dallo tsunami.
Ad ogni modo, siamo contenti di quanto fatto ma, soprattutto, delle persone incontrate. Abbiamo riscoperto che si può vivere in modo semplice, stando assieme nelle case, senza per forza avere sky in salotto o andare ad un cinema.
Abbiamo constatato che è possibile convivere seppur diversi, anche se magari serve una dose di pazienza che noi occidentali non abbiamo più.

Si torna a casa arricchiti, consci che l’Indonesia ha ancora tanti passi da fare, come noi italiani del resto.

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