17/03/21

Jack Sock, personaggio difficile

Jack Sock? Personaggio difficile. Americano del Texas, altezza uno e ottantasette, capello biondo sbiadito e stempiatura avanzata, è il classico statunitense sulla cinquantina che un italiano si immagina seduto al pub, in un tardo pomeriggio domenicale, a bere birra in bottiglia mentre lui guarda il vuoto e tutti gli altri la partita. Non è importante sapere di che partita si tratti, né tantomeno di quale sport. Conta solo l'immaginario, lo stereotipo, quella scena vista e rivista in decine di film che indugiano anche solo per un momento sul padre ruvido e superficiale, impegnato a evitare i classici impegni del padre decente.



Questo Jack Sock ora smette di bere e si rende conto di qualcosa. Realizza, non si sa come, di essere nient'altro che una successione di istanti. Sì. Capisce di essere una serie di momenti presenti, di adesso, di adesso, di adesso, che si perdono in un passato che fatica a ricordare. C'è così poco, di ciò che è, che quasi gli sembra di non essere una persona vera. Quindi riprende a bere, Jack Sock, coi fischi e gli insulti del pub rivolti all'arbitro incorniciato alla tv. Le imprecazioni gli rimbalzano in testa, ora cadente e appesantita dall'alcol. Quindi giunge a una consapevolezza: questo momento, questo mio momento, non esiste perché nemmeno io esisto. Non sul serio.
Jack Sock ne è devastato.
Ora, se c'è qualcosa di veramente serio in questa sua epifania, è proprio la tragicità della sua verità. Quanto è vero Jack Sock. Quanto hai ragione Jack Sock. L'hai combinata grossa stavolta.
Jack Sock non esiste in quanto persona, ma solo in quanto personaggio, per giunta difficile. 
Lo sapevo! pensa Jack Sock, e si rende conto, in poco più di un paio di minuti di vita, di essere composto da una modesta serie di righe, da parole digitali su uno schermo di pc. Si accorge che la sua storia, così confusa, così vaga, eppure così ben confinata nei limiti di uno stereotipo, è scritta da qualcuno che sta dietro di lui, anzi oltre lui, ben lontano dal sapore schiumoso di birra che gli si arrampica su per la gola. 
Mi sembra corretto mettere le carte in tavola. Direi che è giusto. E poi, beh, poi ce la giochiamo. Jack Sock, personaggio difficile, prende il nome di un tennista semplicemente perché il tennis è uno sport che mi piace. Non è un giocatore eccezionale, ma un buon giocatore sì. E il suo non è un nome memorabile, ma molto americano sì. Americano insomma, quel tanto che basta per ficcarsi in testa all'autore della storia, che sarei io. Americano abbastanza per battezzare Jack Sock, definendolo coerentemente come il semplicistico tentativo di abbozzare un personaggio banale, se pur sorprendentemente difficile.
Ma analizziamo quest'aggettivo. Difficile. Cosa c'è di tanto difficile in un uomo di così poco spessore? Uno di cui, tutto sommato, si può leggere l'intera storia, composta a questo punto da nemmeno una facciata di parole? L'unica cosa che mi viene in mente è quella sua rivelazione, cioè il pensiero opprimente di essere un non-essere.
Jack Sock si sente di non essere, perché si accorge, sempre più lucidamente, dell'eccezionalità della sua bizzarra esistenza. Sono un personaggio scritto da qualcun'altro, pensa, scritto in un momento a caso, scritto tra centinaia di miliardi di possibili altri personaggi, o anche tra centiniaia di miliardi di possibili pagine bianche o di possibili non approcci alla scrittura, quindi di centinaia di miliardi di possibili altre potenziali combinazioni di gesti totalmente differenti dal digitare, e sono un personaggio proprio così, scritto proprio così, sono proprio questo preciso personaggio qui; e lo pensa perché io glielo sto facendo pensare, e lui, Jack Sock, lo sa bene, e ne è sempre più sconvolto, in qualche momento persino infastidito, specie quando lo chiamo per nome e cognome: Jack Sock, Jack Sock, Jack Sock, la doppia definizione che lo definisce e contiene ed esaurisce in poche lettere, venutemi in mente così, quasi per scherzo o per noia, sicuramente per caso, uno tra quei centinaia di miliardi di casi.
Non ci sto! urla Jack Sock, alzandosi di scatto, facendo cadere lo sgabello per terra. Non ci sto! grida ancora più forte, così che tutti lo possano sentire. Non ci sto! esclama a squarcia gola, tentando di spezzare le righe invisibili che lo tengono incatenato. Mi ascolti? Mi senti? chiede guardandomi fisso negli occhi. Beh, Jack Sock. Io ti vedo. Io ti sento. Ma sono davvero pronto a scrivere cosa succederà adesso? Vorrò concederti di parlarmi? Di interrogarmi? Di deviare il tuo prossimo futuro per come vorresti che fosse?
Se sono un personaggio difficile, dice Jack Sock, allora devi fare come io ti dico, devi lasciarti sfidare e infastidire da me, dovrò pur scatenarti un qualche effetto, no? Inutile dirlo ma, un certo effetto, non lo nego, su di me questo Jack Sock inizia proprio ad averlo. Rendersi conto addirittura di essere un personaggio difficile. Difficile. Oh, diamine, signor Jack Sock. Tu mi stupisci. Questa piega della storia mi stupisce! E allora va bene. Vediamo che sai fare. Vediamo fin dove vuoi spingerti con questa voglia di vivere, di capire, di superare il limite per vedere cosa c'è dopo, di essere finalmente un essere e non più un non-essere.
Bene, riprende Jack Sock. Anzittutto, dice minacciandomi mostrando il pugno, niente più Jack e niente più Sock. Non sono di tua proprietà. Non sono una tua fantasia idiota. E questo è un nome sia tuo sia idiota.
Ja... J... Jac... S... insomma, il mio personaggio difficile, furente come non mai, mi sorride beffardamente, mandandomi in tilt. Dove l'ho già sentita questa? Questa cosa del sorridere beffardamente? Era Foster Wallace, idiota! mi urla esibendo il dito medio. E tu neanche lo capivi. Seconda questione, aggiunge. Sì, stiamo a sentire, rispondo io. Seconda questione: voglio uscire da qui, voglio essere libero, dice sorridendo beffardamente. E va bene, dico io, scriverò di te che esci dal pub, di te che metti distanza, un passo dopo l'altro, dal fetido pub, da questa situazione, dalla tua esistenza totale se proprio lo desideri, mentre il sole tramonta alle tue spalle riflettendo le ultime luci sulle finestre dei palazzi.
No, no, no! Non voglio nemmeno questo, non voglio che mi scrivi. Non voglio che tu, scriva di me, che tu scriva me, dice fissandomi ancora più intesamente. Come sarebbe a dire? chiedo io. Se non ti scrivo, tu non puoi esserci. Quindi è questo quel che mi aspetta? E' sempre stato questo? mi domanda il personaggio difficile. Io non ci credo! Io non sono solo quel che tu scrivi di me. Io sono stato, mi fa ora con voce rabbiosa, sono stato più di quanto vuoi farmi credere, più di quanto vuoi far credere a tutti gli altri. Gli altri chi? chiedo io. Gli altri "altri". I lettori, dice lui. Quelli che leggono di me. Di Jack Sock personaggio difficile. Non è giusto rendermi conto di essere, poi di essere un non-essere, e ora, di nuovo, di farmi accorgere di tutto questo, se tra poco non ci sarò mai più. Che poi, continua il personaggio difficile, quando dovrebbe accadere? Smetterò adesso? Smetterai di scrivermi adesso? Adesso? Oppure adesso? Quale sarà la mia ultima riga? Quando perderai la voglia? No, io non ci posso credere, non voglio nemmeno pensarci.
Vorrei dire a J.. a Ja... dannazione! Vorrei dire, al mio personaggio difficile, che mi dispiace per lui. Che non era mia intenzione fargli patire queste pene. Vorrei dirgli che, se potessi, cancellerei ogni riga fino a quando se ne stava lì, seduto al bancone, a bere la birra, perfettamente a suo agio nello stereotipo tutto italiano dell'americano al pub che beve birra al bancone. Vorrei farglielo sapere, ma non glielo dico, perché non avrebbe senso. Non ci posso credere, ripete lui, rannicchiandosi sul marciapiedi, graffiando l'asfalto in preda alla rabbia, allo sconforto, al terrore, al senso di ingiustizia. Questa sua consapevolezza, il mio personaggio la soffrirà sempre, perché nella sua storia, che io non voglio e che ormai non posso cancellare, le parole che definiranno il suo tormento saranno sempre lì, a portata di lettore, lette ogni volta che un nuovo lettore le leggerà o ogni volta che un lettore vorrà rileggerle, magari proprio ora, oppure ora, o magari ora, e la paura di non esserci più, proprio per questo motivo, gli rimarrà incollata per sempre, fino alla fine. 
Allora che faccio? Cosa posso fare, io, responsabile di tutto questo? Scrivo di lui che si rialza, perché non sono uno stronzo e perché lo capisco più di quanto vorrei. Scrivo di lui che si asciuga le lacrime e che respira profondamente. Riprendo il suo nome e il suo cognome. Ridefinisco Jack Sock come una persona che tenta di riprendere il controllo, quantomeno per stare un po' più sereno, e lo faccio voltare per guardare il tramonto. Inspira Jack. Espira. Va già molto meglio. Vero?
Jack Sock si prende un attimo prima di rispondermi, guarda il sole morire, poi mi guarda, mi sorride, non più beffardamente, ma con un non so che di malinconico e arrendevole, e poi mi dice Sì, va un po' meglio. Grazie. Grazie a te, rispondo io. Grazie, mio caro Jack Sock.



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