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27/09/23

L'insopportabile paura di non avermi più

Vorrei potermi svegliare in uno di quei momenti buoni, e poi restarci. Vorrei guardarmi intorno, e gustarmi lentamente persone, parole, posti, come quando dopo un inverno intero assapori il primo cucchiaino del tuo gelato preferito. Con tutta calma perché hai appena pagato e ce n'è ancora. 
Eppure non te ne accorgi mai. Mai di quanto sia facile perdere l'equilibrio e cadere, appena oltre il velo dell'indifferenza, e infine smarrirsi nella nebbia.
La prima volta che ho capito che qualcosa, in me, non funzionasse, è stata quando il medico, fuori da camera mia, si mise a parlare con mia madre spiegandole che stesse succedendo. Difficile che la sua voce catturasse la mia attenzione, ma poi, alla parola depressione, un frammento di vetro mi finì dritto in un timpano, pungendomi la coscienza fino a quel momento ignara. Non fu risolutivo, ma è così che cominciò.

Ora vivo in bilico tra l'esserci e il non esserci. Tanti episodi. Tanti periodi più o meno lunghi.
Avevo sedici anni quando ci fu il primo. Oggi ne ho quarantasette, ho una famiglia mia, due figlie, una moglie, un gatto e un buon lavoro. Sono una persona nella media, con piccole ambizioni, come la competizione al mio circolo di padel o la buona organizzazione della sagra di paese. E credo di essere un tipo corretto. Qualche vizio, come il fumo e il buon cibo, e una tendenza forse non troppo sana a preferire il divano rispetto all'attività fisica. Escluso, certo, le giornate con la racchetta in mano.
Questo sono io. Ma anche il resto. A volte troppo, il resto. Si è scoperto poi la questione era più complessa, ma così, per dirla facile, potrei ridurla a un principio basico: ci sono i momenti top e ci sono i momenti down.
Succede sul serio che mi pare che il mondo s'inclini proprio sotto ai miei piedi. Mi aiuta a prendere la rincorsa, certo, solo dritta lungo un pendio pericoloso. In quegli istanti, velocissimi, mi sento perdere, e un'insopportabile paura di non avermi più mi fa tremare tutte le ossa. Poi, scesi in fondo, il tremore passa e i muscoli colano. Non dico i muscoli del corpo, ma proprio quelli del ragionamento e della volontà: non esserci.
Laggiù non si sta male. Laggiù non si sta bene. Difficile dare un parere se non hai il senso dei significati. Per questo vorrei smarrirmi ma solo tra i giorni buoni. La riemersione, l'ossigeno nei polmoni, la luce negli occhi e la voce che dice Sentiti, ascoltati, oggi ci sei! Come sarebbe bello restare. Sapere che rimarrai lì. Il primo gelato dopo un lungo inverno, col sole caldo di aprile, e tu, che hai tutto il tempo del mondo.


Vi ricordo che questo racconto, assieme a tutti gli altri, lo potete trovare nella sezione Racconti del blog!

19/09/23

Se Bellissima di Annalisa fosse un racconto

Idea: perché non prendere le canzoni che ci martellano il cervello passando per radio un gozzilione di volte e usarle per scriverci un racconto?

Detto fatto! Comincio col tormentone più molesto dello scorso anno: Bellissima di Annalisa.

Bellissima

Tante volte ho immaginato che potesse dirmi che ci saremmo stati solo noi. L'ho sperato mentre mi baciava davanti casa, all'improvviso in piena notte, chiedendomi di entrare perché non sopportava di starmi lontano un minuto di più. L'ho voluto quando ridavamo aggrovigliati sul divano, prendendoci in giro mentre un film andava per conto proprio, un'altra storia vista a metà. E l'ho sognato quando mi confessava che per lei, ormai, non provava più niente.
Intanto l'ennesimo pianto. L'ennesima stupida me con i muscoli in fiamme dopo un allenamento furioso, piegata in due dal male dei crampi e del cuore, piena di rabbia, piena delle sue promesse nelle orecchie, con la testa affondata tra le coperte per non sentirle mai più.
È triste essere abbastanza per le sue follie d'amore, ma mai sufficiente per un impegno vero. Quante notti ho passato sentendomi sbagliata. Eppure, mi dicevo, non potevo pretendere oltre. C'erano i figli piccoli, la famiglia. E quanto è squallido distruggere l'infanzia di qualcuno per uno stupido capriccio. Dovevo essere più adulta ed elastica. Una donna contemporanea, capace di vivere e godere la spontaneità di tanta passione senza rovinare tutto con le mie pretese antiquate. Perché lo sapevo fin dall'inizio in cosa mi stavo cacciando. L'avevo scelto, cercato e accettato. Allora perché pretendere una relazione alla luce del sole? Perché avvelenarsi di un'ideale ereditato dai canoni imposti dalla società? Non era forse vero che quando stavamo insieme era tutto perfetto così?
Ma che cosa vuoi? Fattelo bastare, stupida! Non tormentarlo.
Intanto ancora un'altra notte. L'ennesima fuga dalla sua famiglia e io che aspetto fissando il citofono. Dio, quanto lo voglio. Se tutto questo cercarsi non è amore, allora cos'è? Non il grigiore del suo matrimonio. Non una moglie che non si fa toccare. Non la quotidianità soffocante in attesa di un respiro di pace. Il telefono vibra. Mi alzo per aprirgli il portone. Sarà come essere spiata quando, fermo sull'uscio, sorpreso da ciò che non indosso, mi regalerà ancora qualche secondo prima di ritrovarmi. Assaporo il momento. Immagino le sue mani lungo la schiena. Il suono caldo della sua voce. Aspetto. Aspetto. Ma poi... sblocco lo schermo. Un suo messaggio. No. Non è più serata. Un'emergenza a casa. 
Te ne vai via. Via da me. È la storia di un'amante raccontata mille e più volte. Una storia che tocca a me, che me ne sto in piedi, bellissima per nessuno, col telefono in mano.


E questo, era Bellissima di Annalisa.
Se avete commenti o altre canzoni da suggerire, sparate!

Vi ricordo che questo racconto, assieme a tutti gli altri, lo potete trovare nella sezione Racconti del blog!


25/03/22

Bambola

Ballavano, ridevano, si muovevano bene, a ritmo. E lui era fuori tempo. Era a disagio. Senza ossigeno.
Gli spettri dell'adolescenza, capitolo ormai passato, sfogliavano con facilità i suoi caratteri peggiori.
Nessuno balla, si diceva. Nessuno ride. Non sei al liceo. E non sei ridicolo, debole, al centro della vergogna. Non farti fregare. Sei un uomo, ora. Una persona per bene, seria, che ha studiato, che lavora, che porta risultati utili a una vita indipendente. Non sei sbagliato, si ripeteva, ma intanto non poteva uscire in nessun modo dalla sua auto, perché mettere la mano sulla maniglia e aprire la portiera, anche se l'aveva fatto ogni mattina per più di due anni filati, era un gesto rivoluzionario, inaspettatamente scomodo come i sovvertimenti più riusciti.
Che ti succede? si domandava, mentre il cuore scalciava in gola e le gambe si incollavano al sedile. Ma la sapeva la risposta, si conosceva benissimo. E invece di respirare, piuttosto che notare la solidità del parcheggio o l'imponenza della sede aziendale di cui era un prestigioso manager, sentiva i bassi nel petto, assieme ai corpi e le mani e i respiri e il sudore di centinaia di sconosciuti che gli rubavano spazio. Le luci si spegnevano. Il sole brilla, non vedi? La musica gli assordava i timpani. Una mattina silenziosa, silenziosa, silenziosa! E gli sguardi superiori di chi sapeva quanto fosse ridicolo erano riflettori accessi sulla sua inadeguatezza, segreti alla portata di tutti.
No. Solo due colleghi. Ti conoscono ma... non farti vedere. Salutali. Ignorali. Scappa. Nasconditi.
Era come una bambola di plastica a cui premi la pancia con le mani. Spingi in dentro e l'aria esce. Allenti la presa e l'aria entra. Ma la bambola è vuota, non respira mai davvero, e così i suoi polmoni. Esci dall'auto, tenta il sé manager, Organizza l'impulso che sposterà il braccio verso sinistra, team building con le dita e stringi, tira verso di te, obiettivo portiera aperta, muovi prima una e poi l'altra gamba, ruota il bacino, chiedi aiuto ai piedi e all'altro braccio, poi la testa, fai uscire la testa, cerca l'aria, trova l'aria, respira l'aria. Ma ogni muscolo è ormai infiammato, paralizzato dopo il più intenso degli sforzi, fiammante di acido lattico, contorto dai crampi della sua mente che lo imprigionano dentro a una scatola di lamiere.
Cade a terra in mezzo alla pista. Cade a terra tra le gambe perfette delle ragazze e le camicie stirate dei ragazzi. Cadono a terra i suoi occhi, bianchi dello spavento di chi vorrebbe solo ballare e di chi vorrebbe andare a lavorare. Di chi soccorre un collega, un leader, un uomo tutto d'un pezzo, che ora cade a pezzi e non risponde più a nessuno.

18/06/21

Meladizione!

 Scatta la mela, scatta in avanti in un flash e...⁣

"Andata!"⁣⁣

Sbatto il mento sul tavolo e cado a terra privo di sensi. ⁣⁣
Credo.⁣⁣
Non posso parlare. ⁣⁣
Non mi riesce proprio. ⁣⁣
⁣La sensazione è di osservare a  360° come certe fotocamere.⁣
Devo aver battuto forte perché vedo tutto, tutto... ⁣

Non so spiegarmelo ma vedo il tavolo, vedo me, vedo me che mi rialzo, me da fuori. DA FUORI! E barcollo, centro in pieno la colonna portante qui di fronte prima di urlare "Ci sono, ci sono riuscito, ci sono riuscito sul serio!"⁣

⁣Il mio corpo, la mia faccia, mi fissa e se la ride. Se la ride di gusto. La mia mano mi afferra, mi solleva dal tavolo e i miei denti mi staccano un pezzo con un morso netto.⁣

⁣Un brivido di follia mi percorre tutto il torsolo facendomi venire la grinze alla buccia. Riesco solo a pensare "MELADIZIONE!!!"



17/03/21

Jack Sock, personaggio difficile

Jack Sock? Personaggio difficile. Americano del Texas, altezza uno e ottantasette, capello biondo sbiadito e stempiatura avanzata, è il classico statunitense sulla cinquantina che un italiano si immagina seduto al pub, in un tardo pomeriggio domenicale, a bere birra in bottiglia mentre lui guarda il vuoto e tutti gli altri la partita. Non è importante sapere di che partita si tratti, né tantomeno di quale sport. Conta solo l'immaginario, lo stereotipo, quella scena vista e rivista in decine di film che indugiano anche solo per un momento sul padre ruvido e superficiale, impegnato a evitare i classici impegni del padre decente.



Questo Jack Sock ora smette di bere e si rende conto di qualcosa. Realizza, non si sa come, di essere nient'altro che una successione di istanti. Sì. Capisce di essere una serie di momenti presenti, di adesso, di adesso, di adesso, che si perdono in un passato che fatica a ricordare. C'è così poco, di ciò che è, che quasi gli sembra di non essere una persona vera. Quindi riprende a bere, Jack Sock, coi fischi e gli insulti del pub rivolti all'arbitro incorniciato alla tv. Le imprecazioni gli rimbalzano in testa, ora cadente e appesantita dall'alcol. Quindi giunge a una consapevolezza: questo momento, questo mio momento, non esiste perché nemmeno io esisto. Non sul serio.
Jack Sock ne è devastato.

25/10/20

Inisieme soli

Invecchiare insieme fa schifo, è una palude in cui affoghi sempre. Preferirei⁣ essere al suo posto. A volte mi chiama Scheggia. Lo sai da quanto non mi chiamava così? Non⁣ l’hai nemmeno sentito, tu. Era il ‘63, il tempo di nascere e come una ladra ti sei rubata il suo⁣ affetto, così, e io sparita. Senti questa. A un certo punto mi chiama Scheggia e dice di amarmi,⁣ come quel giorno, sulla panchina al Kensington Park.⁣⁣Quel vecchio babbeo passa il tempo a sbavare senza ricordarsi come tenere in mano il⁣ cucchiaio, e poi d’un tratto si fa serio, mi prende le mani e dice Schieggia, ecco io, vedi, c’è una cosa che⁣ vorrei dirti da un po’ e… e si sistema la cravatta e si ingella i capelli che non ha, e io intanto ho⁣ come una locomotiva sparata a mille per tutte le vene, il cuore in testa che esplode e lui che dice⁣ Mi vuoi sposare. ⁣⁣Capito? Mi vuoi sposare, mi dice, con quel suo stupido, stupido sorriso di⁣ vecchio senza denti e la mela frullata che gli sporca il mento. Dio. E poi niente. Se ne torna via.⁣ Sparisce per sempre lasciandomi sola con lui, sola sulla nostra panchina, sola per il resto della⁣ nostra vita insieme.⁣



24/10/20

Farsi sentire

Trascinato sull'asfalto da scarpe da ginnastica e stivali di gomma, nei bagliori rosso fumogeno di una città che vuole gridare. Due ore prima sul sedile di un auto, sul feed di Instagram, la testa tra le foto della tipa che gli piace. Ora il manganello sulla tempia, craniata sul cemento, fischi come ai concerti e adrenalina che dice corri. Avanza faccia a terra prima di chiudere gli occhi. E chi ci pensa a come finisce? Era solo casino, di quelli che a volte servono a farti capire che non va più bene così come sta andando. Luca, poi? Magari Andrea? Corrono via. Ciro li passa a muso duro, controcorrente, mazza in mano. Farsi sentire, urla. Con noi. E Non va bene è una marea rovente sui lampeggianti che vagano incerti.
E il corpo è sempre in mezzo alla strada, sui titoli di domani, nome comune di martire pronto a gridare nelle bocche degli altri. Lui che lì c'era quasi per caso, come i suoi amici, e voleva cambiare, capire, scappare.



01/06/17

Ti prego

Era freddo là sotto. Tremendamente. Non fosse stato per il buio avrebbe visto la condensa del proprio respiro. Era seduto, immobile, braccia strette attorno alle ginocchia, bocca nascosta sotto ai vestiti, soffiando aria calda per trovare un po' di sollievo. Da che cosa, poi, non lo sapeva. Il tempo si era perso e così la fame che tanto gli aveva morso lo stomaco. Due giorni? Tre? Quante volte il sole era sorto e calato? Ma soprattutto: esisteva ancora, là fuori, il sole?
Un rombo sordo. Nuova scossa. Si coprì la testa. Si fece piccolo. Voleva scomparire nell'angolo della parete. Annullarsi. Non sentire. Durò poco. Alcuni secondi. E furono silenziosi e immensi e spessi, aggrappati a un attimo che non arrivò, un attimo in cui un blocco di cemento grande quanto un auto lo avrebbe ridotto a un niente nel buio.
Tossì per l'aria carica di polveri finché la sporcizia non si depositò a terra. L'altro si mosse un poco, lamentandosi. Poi tornò muto. Era vivo. Per ora. Almeno, non era solo.

31/10/16

I colori di un padre

"Ma non possiamo provarci lo stesso?"
"Io ho visto le maschere. Erano fantasmi! Quelli là di prima, là sul ponte lo facevano eh! Daaaiii papàaaa..."
Bruce iniziava a non poterne più di quei mocciosi fastidiosi che si era trovato fra i piedi. E non sopportava di essere chiamato papà. Certo non ci si poteva aspettare altrimenti dal piccolo Jack. Era un po' complicato a dire di molti, ma per lui, più semplicemente, era ritardato, perché non ascoltava e non capiva. Ed era brutto, sì, un bambino proprio brutto!
"Facciamo così." spiegò acidamente. "Io entro a dare un'occhiata e intanto voi potete provare in quelle case là dietro."
"Yeeeh!"
"Ou ou ouu!" i ragazzini si zittirono un istante. "Non più lontano di dove ho detto, capito? Fate il giro e tornate." Annuirono e presero a correre verso il ponte. "E chissà che vostro padre sia dia una cazzo di mossa... sennò cazzo se non gli prosciugo il conto!"

17/06/16

Fiamme Turchesi | Il mio racconto per il concorso europeo e-Darts

Buongiorno cervelli!
Oggi un post molto breve per segnalarvi qualcosa di bello che mi è capitato durante questa prima parte dell'anno. E sì, anche per chiedervi di votarmi (cliccando Qui e mettendo da 1 a 5 stelline)

Iniziamo da e-Darts, che è un concorso a livello europeo a cui ho preso parte scrivendo Fiamme Turchesi, una storia attorno ai 40mila caratteri che nel mese di febbraio è stata selezionata da una giuria assieme a un'altra decina di lavori per il primo step di valutazioni. Ne è seguita la traduzione in lingua inglese e una pubblicazione certa su un ebook che credo sarà disponibile tra non molto.
Il secondo passo sarebbe stato quello di nominare i tre vincitori da questa decina di racconti e... niente, sfortunatamente non sono stato scelto. Così va la vita! Ma... non tutto è finito, perché c'è un secondo premio in palio per il racconto che otterrà più voti dal pubblico dell'internet. Che sareste voi.

Questa cosa dei vincitori nominati dalla rete in realtà non mi è mai piaciuta un granché. Solitamente la vittoria va a chi ha la possibilità di smuovere il maggior numero di persone, non tanto a il migliore in gara. Però, dato che siamo in ballo, allora balliamo, e visto che non si vota completamente alla cieca, vi invito ovviamente a leggere gratuitamente Fiamme Turchesi (se vi va anche in inglese) andando a questo link, in cui poi potrete anche votare direttamente mettendo una o più stelline.

25/05/16

Tieni la porta

Sento profumo di cose buone, selvaggina, maialini allo spiedo trasudanti di salse calde, carré d'agnello con patate di rape gialle e burro, montone con carote, pesche al miele, tocchi di formaggio speziato alle erbe e forme di pane al burro appena sfornato, aromi che mi urlano in pancia e Dio, Dio mio, sto crepando dalla fame. Era una giornata gelida, come ora, ma ero coperto ed ero più grasso. Sicuramente poi, l'avere tutti i miei arti rendeva meno problematico inforcare le posate. Non che ora ne abbia gran necessità in effetti. C'era la neve. Una tormenta. Ci aveva investiti mentre giravamo un pezzo per il prossimo documentario sulle ambientazioni della serie. Il rifugio non era troppo lontano ma un guasto alla jeep ci aveva costretti a rimanere lì in attesa di aiuti, o in alternativa a fare una buona ora di faticaccia tra metri e metri di neve, vento e ghiaccio.
Illustrazione di MarcSimonetti che trovate qui
Restammo in due: io e il mio ex compagno di cella. Gli altri proseguirono promettendo di tornare di lì a poco coi soccorsi. Niente campo per i telefonini, chiaro. E chi arrivò infine, almeno mezza giornata più tardi, furono degli uomini in carrozza imbacuccati neanche fossero a un revival medievale, caricandoci sgraziatamente a bordo e dandoci una magra ospitalità tra le mura di un maniero in piedi per miracolo.
Questo fu un mese fa. Alla seconda settimana di prigionia il fonico fu scuoiato e dato in pasto ai cani e un po' anche a me. Dicono che i tripponi sopravvivono a lungo con tutte le riserve di grasso che hanno. I miei amici, almeno, dicevano che io potevo star sicuro che di fame c'avrei messo del buon tempo per schiattare. Più probabile un infarto invece. Finisci i tuoi libri ciccione di merda, prima che ci lasci le penne e una fottuta serie incompleta tirata avanti per i capelli da un serial tv che pare sempre più Cento Vetrine!

13/05/16

Tutto questo brutto sangue

Avanti. Vediamo se trovi il coraggio. Se hai le palle di sintonizzarti con me, mettere play e starmi a sentire per una buona, fottuta volta. Sì, sto parlando proprio a te che stai leggendo queste parole. Ascolta la musica che c'è qui all'inferno e prova a sentire quel che sento io. Non l'hai ancora premuto vero? Schiaccia su questo dannato play! Fammi vedere, mostrami di che sei capace, perché io lo so che tu non hai la più pallida idea di quanto sia una merda essere un uomo, intrappolati in questo schifo, e allora, Dio, adesso te ne stai muto e vivi sul serio, per una volta.
Prova cosa significa spingere l'acceleratore con l'aria gelida che ti spacca la faccia e lo stereo che grida, guarda come scivola via l'asfalto arancione dei neon della notte, in questa città di coscienze malate terminali. Riesci a sentirlo? La vedi la paura ad ogni sorpasso, il brivido che ti tiene in bilico tra una lamiera insanguinata e la folle corsa di un povero cane bastonato, stufo di tutto questo?  Oh, tu non lo sai, ma capirai presto, capirai senz'altro. Perché capisci, ho deciso di venire a dirtelo in faccia e sfilarti dalle mani il mio ultimo istante di vita, mentre la strada è investita dagli pneumatici e dal temporale, e tutto quel che ho fatto di buono per costruire qualcosa se n'è andato a fanculo per l'arroganza del tizio che ora è qui con me, nel bagagliaio, a pezzi e chiuso in un sacco come la peggio monnezza del tuo fottuto mondo.

21/03/16

Reverenziale timore di morte

Disteso sotto un ombrellone a pois osservava i cadaveri che affollavano la spiaggia, resti di persone aggrappati a scheletri scarnati dai vermi. Strano a dirsi, ma così coperto appena da un asciugamano non riuscivano a notarlo nemmeno per sbaglio. Erano creature assolutamente temibili ma certamente non troppo sveglie, che ora inscenavano, quasi a omaggiarli, un tripudio di cliché rubato da pagine e pagine di letteratura sugli zombie. 
Sulla sabbia infuocata dal sole di agosto emergevano o s'inabissavano nel fondale marino, tanto lenti, instabili e privi d'istinto rabbioso che c'era da chiedersi se fosse davvero il caso di averne paura. Certo Marco conosceva bene la risposta da darsi, visto che era lì a girovagare sul bagnasciuga con faccia ebete e testa esplosa. Immaginatevi un brillante ricercatore del politecnico di Milano a regalare la propria conoscenza facendosela uscire dal cranio sfondato a fucilate. Già... così stavano le cose adesso: al suo compagno mancava mezzo capo eppure brancolava sereno. E a questo punto potreste chiedervi come fosse ancora possibile deambulare tanto pacatamente e se non sapesse invece che senza cervello gli zombie morivano per davvero. Si era scordato che i fondamenti di tanta orrorifica tradizione non prevedevano assolutamente un simile comportamento? 
Lo stupore aveva subito sconvolto anche Giacomo, quando appena tre settimane prima aveva premuto il grilletto facendo fuoco dalla cima del letto a castello. Marco l'aveva assalito dopo due notti d'inferno lottando le febbri terribili del virus. Lui, per prendersene cura e rispettare la promessa che li aveva legati, lo aveva ammazzato se pur con qualche esitazione, in cuor suo confidando in una liberazione purificatrice, non certo nel risentimento da non morto non morto! Un deficiente e reverenziale timore di morte che pareva possedere gli zombie aggrediti spingendoli via, lontano dagli umani ''cattivi'' che volevano ma non potevano ucciderli. Quei cosi avevano paura dell'uomo più di quanto l'uomo ne avesse di quei cosi. E in un simile scenario di degrado e devastazione gli toccava attendere che i cadaveri finissero di farsi il bagno a mare per migrare poi da qualche altra parte.
Immobile sotto l'ombrellone a pois, coperto da un asciugamano di Willy Coyote, Giacomo studiava l'abbozzarsi di una società di asociali, intento a non turbarne l'instabile quiete. Non vi stupirà più sapere a questo punto che anche un'altra ventina di sopravvissuti lì con lui era appostata ormai da parecchie ore, attenta sotto il sole cocente a non spaventare i corpi inconsapevoli. Ciò che volevano scoprire osservandoli minuziosamente rispondeva all'idea sempre più pop che il virus in realtà fosse una manna dal cielo, vero autentico dono divino che esaudiva millenni di preghiere ignorate. Per intenderci: come reagireste voi lettori se vi dicessi che esiste il modo di vivere tutti insieme, in armonia e per sempre? Cosa fareste se il paradiso promesso non fosse nell'aldilà ma invece qui e ora, proprio sulla Terra?

23/02/16

The Message | Racconto in scrittura collettiva

E anche questo secondo esperimento di scrittura collettiva è terminato, e devo ammettere con ottimi risultati. Sarà che la volta precedente era tutto imploso dopo appena due commenti, ma stavolta sono rimasto stupito e non poco. Quindi ringrazio tutti voi che avete partecipato mettendo la vostra fantasia al servizio del gioco.
Ora arriviamo al dunque! Di seguito troverete tutto il racconto senza interruzioni e con giusto qualche modifica per renderlo un po' più scorrevole. Oltre al mio incipit poi, ci sarà anche un finale sempre scritto da me, che ammetto essere stato complicato da realizzare districandomi tra le varie parti (siamo in 17 senza contarmi, wow!). Visto lo spirito del progetto però, vi lascio la possibilità di dire la vostra, e cioè di scriverne uno alternativo in caso ne abbiate voglia. 
Siete pronti? Ecco che abbiamo combinato...

immagine realizzata da Martin Grohs
Era mattino presto e c'erano già 40 gradi all'ombra. Elio guardava le gambe affusolate della signora a bordo vasca, spalmata sul lettino e ben ricoperta di olio abbronzante. Che gran femmina quella! E che coraggio a starsene volontariamente lì, sotto al bollore mortale! 
Lo pensava sudando tutta la birra della sera prima, mentre sistemava gli ombrelloni che ancora stavano in piedi e ripuliva lo schifo lasciato dai balordi. Ogni notte qualcuno scavalcava il muretto e approfittava della piscina (se così si poteva chiamare...) per affossare di un altro po' l'atroce livello di qualità del Coco Bongo, 3 stelle, due appiccicate in entrata con scotch e sputo. 
Che schifo di vita era la sua. Che prospettiva triste per il futuro. Non poteva permettersi nemmeno di vestire decentemente la sua bambina, eppure era lì a cucinarsi la pellaccia facendo tutti i lavori più infami per il signor Bongo. Ma proprio indugiando ancora una volta sul poco svago che le curve della signorotta gli regalavano, ecco una banconota da 500 euro sventolargli sotto al naso.
''Ehi, tu.'' disse la donna indicandolo. ''Vuoi fare un lavoretto extra per me? Ti va di guadagnarti questi in modo facile facile?''
Elio strabuzzò gli occhi mentre la sua testa già diceva sì prima che la bocca articolasse qualcosa di sensato.

24/01/16

All'Isola Che Non C'è.

Quando i genitori uscirono di casa le candele bruciarono ancora qualche minuto, accompagnando i piccoli nel mondo dei sogni. Non appena si addormentarono e il buio calò nella camera, la notte sgusciò dentro passando per la finestra, portandosi dietro un minuto e sinistro bagliore scarlatto. Saettava per la stanza gettando ombre deformi sui volti dei tre bambini. L'essere voleva qualcosa, rovistando ogni anfratto di quella realtà non troppo familiare. Cosa stesse cercando, tra gli oggetti dei Darling, ancora non ci è dato saperlo, ma il terrore cieco che spingeva l'animo di quella creatura di luce ne dimostrava certamente la grande importanza.
Scovò infine, con uno scintillio di sollievo, ciò che il suo signore bramava da tempo. Nessuno al mondo, né in questo e neppure nell'altro, poteva quietare la volubilità di tale artefatto. Nessuno se non lei, ultima fata, che col suo incanto brillante addomesticava l'ombra del padrone. Polvere radiosa come il sole vibrò tra le sue ali, trascinando il manto viscido tra le lenzuola di Michael, che si svegliò.
L'arte di Tobias Kwan la trovate Qui
Qualcosa... un mostro, c'è un mostro vicino al mio letto! pensò tirando in su le coperte e lasciando fuori appena gli occhi. Ogni bambino prudente, è risaputo, conosce perfettamente il modo più sicuro per fuggire gli orrori che attendono pazienti nel buio, e nascondersi sotto le coperte è ovviamente uno tra i più efficaci. Purtroppo però, la sorte gli fu questa volta assolutamente sfavorevole, e così facendo l'ombra lo avvolse, marcendogli naso e bocca, mangiandogli il respiro. Michael soffocò muto sotto lo sguardo vispo di Campanellino. Wendy e John dormivano sonni sereni sognando un'Isola lontana piena delle più incredibili meraviglie. Il loro fratellino rimase immobile sotto le lenzuola. Non c'era già più. Non era, già più. 
L'impeto euforico del piccolo Peter destò d'un tratto i bambini inconsapevoli. Allora la fata ronzò loro attorno e Peter esclamò Volate, volate miei piccoli amici, io sono Peter Pan, sono il Peter Pan delle storie di cui tanto si sente parlare in giro!, e Wendy e John strabiliati gioirono vedendo il pavimento staccarsi sotto i loro piedi, celebrando stoltamente i desideri dell'insolito fanciullo. Seguirono diversi minuti di assoluto divertimento, di piroette per aria e acrobazie con giri della morte, poi camminarono un po' sul soffitto a testa in giù e seguirono qua e là Campanellino per provare ad acchiapparla, e infine la dolce Wendy, che come forse ricorderete era una ragazzina assai coscienziosa, si domandò d'un tratto preoccupata dove fosse finito Michael e perché non fosse lì con loro a divertirsi.
Peter Pan si fece allora serio e anche il sommesso trillo della fata parve improvvisamente incupirsi. Ebbene, cominciò quindi a parlare l'infante, il vostro piccolo fratellino è stato rapito niente di meno che dal temibile corsaro Giacomo Uncino, e per questo voi ora verrete con me all'Isola Che Non C'è per fare guerra ai pirati e riportarlo in salvo! concluse spavaldo conquistando subito i due poveri ingenui. Non era il senso del dovere verso Michael ad attrarre i due Darling, né lo spirito d'avventura o la curiosità spaventosa con cui l'Isola li stava chiamando; no, era qualcos'altro, qualcosa nascosto oltre il riso sibillino di colui che non voleva crescere mai, un richiamo di intima familiarità e assieme terrore profondo che li spingeva a fidarsi di lui. 
Il bambino si accovacciò sul bordo della finestra seguito dalla sua fata, splendente come una stella. Volate con me, volate con me! disse in un sorriso, spingendosi fuori nel vuoto. Così fecero mano nella mano Wendy e John, ma l'aria non era più loro compagna, il niente si aprì vertiginoso sotto di loro che precipitarono per tre piani finendo uccisi sul vialetto di casa.
Peter Pan atterrò flaccidamente di fronte a tale scempio. Campanellino proiettò su di loro l'ombra ingorda dell'antico padrone che smanioso, banchettò delle carni innocenti di quei piccoli sognatori infranti. Come promesso, all'Isola Che Non C'è avrebbero incontrato Michael e tanti altri bambini sperduti.

18/01/16

E non fui più nemmeno questo.

Qualcuno pensa che quando si muore ci sia una luce da seguire e un luogo al di là di quella, fatto di pace eterna e quiete infinita; oppure l'inferno che brucia, la dannazione perpetua a chi si è sporcato l'anima di vergogne innominabili. Altri credono che qui ci siamo per imparare e imparare e imparare, una vita per volta e una lezione dopo l'altra, una scuola senza maestri in cui ogni cosa ti insegna qualcosa, per sempre. E c'è chi invece è convinto del nulla, il niente che è come spegnere un televisore o staccare la spina; zak e sei morto, muto, schermo nero e batterie esaurite, contestate da un ragionevole non lo so, non lo so proprio che cosa ci sia quando si muore, non lo so se ci sia, non lo posso conoscere, ma soltanto provare quando sarà... quando arriverà il momento. La verità, vi dirò, non è nessuna tra queste, ma si avvicina a chi da valore al ricordo dei morti, a chi non dimentica le persone care, a chi le fa mormorare nel proprio cuore, nelle stupide azioni inconsapevoli di ogni giorno.
Quando mi uccisero ero eccitata ed euforica. Una bambina col cazzo duro, le mani insanguinate e il cuore in gola. Essere adrenalina ti fa girare la testa anche se questa è priva di pensieri, se è nient'altro che parte di cadavere, bambola di pezza tra le brame di un lurido. Questo fui in quegli istanti sperduti: sensazioni tanto intense che una persona non potrebbe contenere mai, in nessun modo. Poi diventai altro. Tramutai in un vomito d'ansia e vergogna, urlai tra cumuli di terra e rimpianto finché fracassavo le mie stesse ossa, spezzavo a colpi d'accetta il capo dal collo, maciullavo come una bestia la bambina di tredici anni che non ero più. E infine fui anche timore, paura, terrore, lacrime irrefrenabili di chi realizza di aver perso qualcuno, di chi sa senza saperlo che tua figlia, o la tua sorellina, non tornerà più a casa, non riderà mai più con te, non ti sveglierà ancora con la sua risata.
Ricordo non fu semplice capire, perché non hai più modo di esserti familiare, sei qualcos'altro. Lo stesso ricordare, in effetti, perde di senso in una realtà priva di segni con cui orientarsi. Ci misi del tempo a calzare le mie nuove vesti. Indossavo più aspetti, parlavo più voci, vibravo a molti toni d'umore contemporaneamente. Le notti insonni di mia madre non volevano ascoltare mio padre mentre infrangeva i suoi ricordi più belli, mia sorella mi cercava nei sogni, il mio assassino negli occhi spaventati che mi erano appartenuti e che aveva strappato. A volte davo un bacio a quella ragazzina timida che non ebbe il tempo di provare quest'emozione per la prima volta, altre ingiallivo tra le righe dei vecchi temi che un professore per caso ritrovava nel suo studio. E rimarrete stupiti, forse, nel sapere che anche un luogo può ricordarsi di te, sbadigliando all'alba nel giardino coperto di brina e sognando tra le coperte in cui un'adolescente tormentava le proprie paure.
Il dormiveglia è una confusione insapore che potrebbe farvi avvicinare a quel che verrà di voi. Sei in un letto, sei dall'altro lato del mondo, sei ovunque e da nessuna parte in un istante che inciampa a seconda di ciò che diventerai. Ed io ero così, a osservare il tempo sbiadire ogni aspetto di me, cancellando pian piano ogni riflesso, rendendomi muta e inorridendo chi non poteva più udirmi, spezzando una ad una le vite che tenevano viva la mia, finché non morii davvero.

21/12/15

L'ottantacinquesimo passaggio.

Era una corda di violino, teso all'inverosimile. Il padre del teletrasporto, il genio supremo, se la stava facendo sotto all'idea di entrare in quella porta a sinistra per poi uscirne dall'altra, alla sua destra.
''Forza professore. E' pronto?'' chiese il giovane assistente.
''Ti dirò… me la sto facendo sotto''
''Ma i test funzionano. Non c'è nulla che non vada. Abbiamo provato con''
''Sì sì sì chiudi il becco due minuti per favore?''
Non servivano ulteriori evidenze del proprio lavoro per tentare di rassicurarlo, era irritato e basta, e nessuno meglio di lui sapeva. Erano anni ormai che il teletrasporto veniva effettuato su qualunque cosa, dagli oggetti inanimati ai tessuti vivi, piante e persino animali. Il mondo, grazie all'incredibile invenzione, era cambiando radicalmente. Jason Maxwell: l'uomo straordinario destinato a mutare ogni cosa, di nuovo. C'erano già state a seguito di quella tecnologia una rivoluzione sociale, una economica e una politica senza precedenti per rapidità e naturalezza con la quale si erano innestate e susseguite. Lui era un pioniere, un talento sovrumano, un Dio. Lui era il futuro.
Mancava solo l'ultimo passo. Doveva entrare in quella cabina, far si che il proprio corpo fosse interamente disintegrato, e poi uscire dall'altra, dopo un riassemblamento a livello sub atomico che gli avrebbe dato la sensazione di… no, non la sensazione, l'esperienza di un teletrasporto, un viaggio istantaneo da un luogo, a un altro.
''Tu credi nell'anima?'' domandò lo scienziato a Mike, lì in trepidante attesa.
''All'anima? Professore, non starà per caso''
''Zitto Mike, ti prego. Ho bisogno di silenzio''
''Ma lei…''
L'uomo gli fece segno di stare muto con l'indice. ''Avvia''
L'assistente attivò la macchina. Jason Maxwell si posizionò all'interno della cabina. Doveva solo azionare quel pulsante, premere un bottone, e poi si sarebbe ritrovato dall'altro lato, più veloce di un battito di ciglia, più rapido di un pensiero o dell'intenzione stessa di voler pensare, in molto meno di un miliardesimo di millesimo di secondo. Bastava un click, uno soltanto, e sarebbe diventato il primo uomo a provare il teletrasporto.
Prese un respiro profondo. Contò fino a tre. Premette il pulsante. Era dall'altro lato.
Le sue paure svanirono, ripeté l'esperimento altre tre volte, lo stesso fece il suo assistente e poi seguendo il protocollo anche il resto dei progettisti, degli ingegneri, dei ricercatori, degli scienziati, degli studenti. Erano tutti entusiasti, era un miracolo, il teletrasporto, ma questo già lo sapevano in fondo, funzionava anche sugli esseri umani. Fu il momento più bello della sua vita, fu la scoperta più incredibile del mondo e fu l'incidente più incomprensibile mai visto. Lo stato di euforia cessò all'ottantacinquesimo passaggio.
John Smith si materializzò perfettamente nell'altra cabina, ma cadde a terra faccia avanti, privo di vita. Fu agghiacciante. Per quattro mesi l'attività si arrestò e ci furono studi, calcoli e teorie che andarono stracciate e corrette, risistemate di nuovo e riapprovate. Non capivano cosa fosse accaduto a Smith, se un semplice infarto, una morte naturale, o peggio, qualcosa che dipendesse dal teletrasporto. Nonostante anni di successi quel primo incidente, in concomitanza con la sperimentazione umana, investì Maxwell di una valanga di dubbi, critiche e ripensamenti, ma anche di un inatteso sostegno dal mondo scientifico. Gli dicevano era stata una fatalità proprio come confermavano i dati, concordavano tutti, ma qualcosa nella testa di Maxwell gli impediva di cedere all'evidenza, e senza il suo benestare nessuno rimise più piede nel teletrasporto per molto, moltissimo tempo.
Infine lo fece lui. Una notte. Ubriaco. Si liberò dalle paure insane, da quella stupida idea che lo aveva quasi bloccato la prima volta e si teletrasportò. Funzionò. Certo che funzionò, perché non avrebbe dovuto? E lo fece un'altra volta, e ancora, e ancora, quattro, cinque, sei, venti, ottanta volte. Lo premette per l'ottantacinquesima volta e fu dall'altro lato, perfetto, integro. Quante altre ne avrebbe dovute provare per convincersi che tutto procedeva perfettamente? Cos'altro per crederci? 
La mattina trovarono il suo corpo alla cabina del teletrasporto. Guardò mentre lo sollevavano, mentre tentavano di rianimarlo. Si chiese, guardandosi da lontano, se non fosse tutto uno scherzo assurdo, se fosse colpa del caso, o se davvero non sempre l’anima se ne va di pari passo con la carne. Fortunatamente, ora aveva tutto il tempo del mondo per trovare la sua risposta.

19/11/15

Cattivo viso a buon giocoso.

Metti un paio d'occhiali sopra al tuo paio d'occhiali e hai un totale di quattro lenti: due per occhio. Se ne aggiungi ancora un paio dunque, arrivi a tre per due, tipo le confezioni di uova, e non sei più un gran bel vedere con tutta quella roba addosso. Riccarlo, stufo di essere piacente, quel giorno prese la decisione più coraggiosa della sua vita. Si affacciò alla finestra e fissò il sole. Fffff (rumore di sfrizzare)... lente per lente per lente per due occhi per tre paia d'occhiali per una scarica di raggi fotonici in gentile concessione dalla stella a noi conosciuta come Sole e voilà... occhi fritti!
Preparò la sua colazione con tutta la calma del monarca Luigiquattordici. Si prese gli occhi fritti e aggiunse un occhio di bue dalla confezione di uova, staccò le labbra di pancetta formando un bel sorriso sul piatto e riempì un bicchierone di té al giallo di cui però non citeremo la provenienza. L'english breakfast gli sorrideva bello come Riccarlo, lui ricambiava garbatamente pur privato di bulbi oculari, labbra e occorrenza di urinare. Era proprio un sollievo in effetti che non gli scappasse più da pistoia, eppure era un problema. Ricordava con estrema gratitudine i disagi che il suo essere belloccio gli causava quando girava per strada. 
Le donne adoravano Riccarlo e questo, impaurito dall'oppressivo universo femminile, se la faceva letteralmente addosso ma soltanto se bazzicava nei pressi di Pistoia. Un buon motivo, aveva deciso, per trasferirsi definitivamente in loco. Gli fu chiaro fin da sabato che alle donne non piace l'uomo che se la fa addosso imbrattandosi tutti i pandistelle. Anche perché poi hai voglia a inzupparli nel caffellatte la mattina, ché diciamocelo: quale compagna di vita vorrebbe al suo fianco un tipo che non può svegliarti pucciando il biscottone per colazione? Certo ci sono le feticiste di quella pratica amatoria estrema definita come cascata dorata, ma qui parliamo di persone normali, che diamine, mica di salmoni che risalgono i torrenti!
Dunque Riccarlo stava godendosi la propria libertà gustando occhi fritti, labbrecon, un bicchiere di tè gusto giallo e un vero occhio di bue preso dalla confezione da sei lenti che gli incorniciava la faccia orrenda. Rifletteva su quali straordinarie prospettive gli serbava ora il futuro, così imprevedibile e invisibile, ma soprattutto, così ricco di buoi deficienti di un occhio che avrebbero brucato i prati con una benda piratesca e magari un uncino nella zampogna mancante. Oh, sia chiaro, ovviamente i buoi pirati non possono suonare la zampogna, ma ogni tanto il nostro protagonista faceva ragionamenti un pochino strani e sconclusionati. Insomma, voi ce lo vedreste mai un pappagallo piratesco a dover litigare con la zampogna e le lenticchie in musica per riuscire a tener possesso della spalla del proprio padron Frodo? Non credo proprio. E poi sta frase è così lunga! 
Rifletté dunque ancora un poco nella tranquillità del mattino inoltrato. Infine decise di farsi un giro per Pistoia, di vivere sulla propria pelle l'avversione femminile dovuta non più ai problemi di piucciatura dei pandistelle nel caffellatte bensì a una nuova, frizzante e fino a quel giorno tanto bramata grave mutilazione al viso. Uscì fischiettando felice come una pasqua con giuste cinque uova rimaste, e conobbe così il più bel giornalaio della sua vita. Era l'inizio di una grande avventura.

31/10/15

Âmes d'Encre

Piero e Veronica erano sposati da ormai più di venticinque anni, avevano quattro figli, un paio di cani, una casa incantevole col giardino spazioso e una piscina interrata. Assieme formavano una bella famiglia, davvero affiatata, ed era palese il modo in cui la gente li guardava, così piena d'ammirazione, così ansiosa di precipitarsi ai loro party estivi e alle grigliate. La magnifica facciata però, era tutto ciò che li tenesse in equilibrio, che mandasse avanti giorno dopo giorno la routine dei due coniugi. Le lenzuola soltanto conoscevano la triste verità, quella gelida antipatia che scorreva viscidamente tra i loro corpi incrinati dall'età impietosa e le menti tediate.
Avevano pensato ad un viaggio a Parigi, per ravvivare qualcosa, per rinfrescare le idee e lo spirito, ed eccoli mano nella mano, che passeggiano tra le botteghe degli artigiani più singolari, accompagnati di tanto in tanto da qualche lieve scroscio di pioggia. L'insegna che li attira recita Âmes d'Encre, e loro entrano a sbirciare sedotti da un imprecisato aroma di incenso e dal profumo di...
''Bonsoir, amanti di luce. Amelia è qui per servirvi. Di cosa avete bisogno?''
Veronica s'intrattiene presto a discutere con l'anziana signora mentre Piero, stregato, si perde subito tra oggetti sconosciuti e simbologie antiche, odori, colori e i mille e più tessuti di quel magnifico negozio d'altri tempi. Ogni sorta di veste, ogni tendaggio, ogni coperta, cuscino o lenzuolo è splendidamente creato a mano e arricchito di fantasie tanto particolari quanto affascinanti, misteriose, persino inquietanti. Ogni figura ha una corrente artistica differente, un suo proprio stile, e ci si smarrisce in un'alternanza tale che ogni sguardo è un vortice di art brut e cubismo, impressionismo e decadentismo, surrealismo e romanticismo. Nel singolare stordimento poi, Piero coglie gli altri avventori del negozio e nota, in quel loro pacioso girovagare, quanto siano anch'essi bizzarri e intonati, o meglio stonati, con la bottega stessa. Una particolarità sembra accomunarli. Non ci ha fatto subito caso ma ora non può fare a meno di chiederselo: come mai sono tutti così silenziosi e... in sovrappeso? Si spostano lentamente, barcollando tra gli scaffali e osservano con disinteresse la merce esposta. Qualcuno muove silenziosamente la bocca, un'espressione ebete e vuota, si ferma un po', riprende a camminare.
L'uomo fa spallucce e smette di pensarci, torna a ciò che l'incredibile bottega ha da offrirgli, e inevitabilmente si ferma all'immagine puramente naif di una coppia: due individui scarni stesi uno di fianco all'altro, le dita che appena si sfiorano, addormentati o forse morti, ma in ogni caso, stranamente splendidi, colorati.
''Oui, questo allora farà al caso vostro.'' dice la negoziante portando la moglie a contemplare proprio ciò che Piero già osservava rapito. ''Due amanti, oui? Occhi chiusi, in estasi, due dita che si cercano poco a poco e un letto di giunchi fioriti che si abbracciano proprio sotto di loro.''
''E' magnifico...'' dice Veronica in un filo di voce.
''Magnifico.'' concorda il marito.
''Credete ad Amelia: io vedo nei cuori della gente. Copriletto, lenzuola, federe, trapunta e il tessuto che li rende vivi... non è questo l'importante, ma l'essenziale. E' ciò che questo dipinto qui raffigurato racconta e lascia intendere. Dormirete bene assieme a loro.'' annuncia in un sorriso, ''E farete bene anche qualcos'altro, credete a questa vecchia Amelia.'' termina andando a preparare il tutto per concludere l'affare.

07/10/15

Il bar del pesce giallo

Piove che Dio la manda, così, tutto all'improvviso. Me l'avevano detto che al nord il tempo faceva sempre schifo, ma vai a vedere che davvero la pioggia non ti lascia in pace per più di mezz'ora? Vedo un'insegna luminosa più avanti, corro con l'ombrellino tutto scassato dal vento e la valigetta di lavoro nell'altra mano. Posto piccolo, accogliente, cerco un tavolo in un angolo. Prendo in mano il listino del bar e inizio a sfogliarlo. Le ultime due pagine contengono un racconto intitolato Il bar del pesce giallo, la storia del nostro nome. Il cameriere arriva e chiede cosa voglio ordinare. 
''Una bionda media.''
''A posto così?''
''Sì, grazie.''
Annota, mi ringrazia, e sparisce nell'altra stanza. Inizio a leggere.

Come si divertiva lui a fissare le persone forse nessuno mai. Traballavano un po', e il volume della musica assecondava il quadretto frenetico riflesso sulle spine di birra. Appoggiato al bancone, la testa abbandonata su un braccio, osservava chi alle sue spalle si stava vivendo la serata. Li vedeva allora obesi e bassi appena prima di scomparire dietro la sua faccia, e poi lunghi e smilzi quando s'allontanavano, fino a che non si notavano più e restava il metallo lucente del rubinetto, sporco di macchie.
''Dai, fammene un'altra.'' 
Guardò il boccale riempirsi, la bionda scendere fresca e invitante, la gente deforme riflessa sulla sua sinuosa e personalissima fonte di felicità. Bevve sporcandosi di schiuma fino al naso, ne scolò metà, appoggiò il boccale e lo fissò tornando a ingobbirsi sul bancone.
''Vuoi forse farmi morire?'' domandò il pesce che nuotava nella birra.
''Sì, odio i pesci rossi''
''Sono un pesce giallo, sei cieco?''
''Solo un po' sbronzo.''
''Vaffanculo, se la metti così, beh io inizio a cagare allora!'' disse il pesce giallo, iniziando a defecare dentro la sua birra.
''Ou, tu.'' chiamò il barista. ''Questa birra non è buona. Vedi? C'ha cagato dentro.''
''Mi scusi?'' fece il giovane un po' a disagio.
''Sì, sì, questo cazzo di pesce mi ha cagato dentro alla birra ti dico. Li vedi? Li vedi i suoi stronzetti?'' chiese alzando il boccale mezzo vuoto.
Il barista non capiva. ''Se vuole gliene porto un'altra.'' disse cercando con lo sguardo il suo superiore.
''Un'altra? Se le fate tutte con questi pesci che ci cagano dentro io non lo so se ne voglio un'altra!''
''Sei proprio un deficiente.'' fece il pesce giallo ridendo, nuotando nelle bollicine di birra.
''Tu sei proprio un figlio di troia invece!'' urlò lui puntando il dito al bicchiere.
Notò, riflessi sulle spine di fronte, i clienti alle sue spalle. Parlavano ora a bassa voce e lo fissavano.
''Che cazzo avete da guardare?'' si girò, ''Ma l'avete vista la merda che vi rifilano in questo locale? Pesci rossi che cagano i loro stronzi dentro alle birre! Ma dove siamo finiti? E voi la bevete! Guardate qua!'' fece alzando la sua bionda in modo che la vedessero.
''Sono un pesce giallo brutto deficiente, che cazzo di problemi hai?''
''E sono stronzi pure i pesci, l'avete sentito?''
Chi rideva, chi lo filmava, chi tornava a ignorarlo allontanandosi o usciva dal locale. ''Ahh ma andate a fare in culo pure voi!''. Tornò a girarsi verso il bancone, fregandosene di tutti.
''Mi dia pure.'' disse l'altro barista. ''Non gliela facciamo pagare ma la invitiamo a uscire dal bar.''
''E perché? Io voglio soltanto bermi una cazzo di birra come si deve, e voglio pagarla, non voglio dover uscire perché voi ci mettete i pesci rossi che ci cagano dentro!''
''Pesce giallo!'' fece il pesce, mentre veniva portato via assieme al suo boccale.
''Signore, la prego, sta infastidendo i clienti. Non ci costringa a chiamare i carabinieri.''
''Ma siete tutti deficienti?! Dia qui!'' disse togliendolo dalle mani dell'uomo. ''Me ne vado sì, da questo posto di merda. E si tenga i soldi di questa merda di birra piena di stronzi di pesce rosso! Che non sono mica un pezzente come volete far credere a questi imbecilli che non capiscono un cazzo.''
Lasciò cinque euro sul tavolo, si alzò, e imboccò l'uscita col bicchiere in mano.
''Sono un pesce giallo ti ho detto!''
''Sai cosa c'è? Mi hai proprio rotto i coglioni!'' rispose tra gli sguardi preoccupati dei passanti.
Lanciò il boccale per terra, il vetro esplose, la birrà schizzò via assieme alla merda di pesce e al pesce.
''Così impari, pesce giallo di merda! Pesce giallo, pesce giallo, così impari, impari, merda!'' prese a sfogarsi, urlando per tutti e cinque i minuti che ci vollero prima che le forze dell'ordine arrivassero per portarlo via. 
Per terra, ovviamente, solo vetro e birra. 

''Ecco a lei la sua birra.'' mi dice il cameriere.
''Grazie. Ma, questa storia del nome del bar?''
''Oh, storia vera. Il locale ha preso questo nome tre anni fa, per via di quel matto che vedeva i pesci gialli nella birra. La gente è rimasta così colpita da quell'episodio che c'ha spinto a prenderne spunto.''
''Bah, che storia strana. E il tipo che fine ha fatto?''
''A quanto dicono è finito in manicomio, o qualcosa del genere. Beh, è quello il posto giusto per matti simili, dico bene?''
''Ah... sì sì, lo penso anch'io. Beh, bella storia, grazie eh!''
''Si figuri. Grazie a lei.'' fa andandosene.
Prendo in mano il boccale, faccio per bere e...
''Ehi, vorrai mica buttarmi giù?'' mi fa un pesce giallo che nuota nella birra.
Mi guardo intorno. ''Nnnooo...'' gli rispondo. Poso il bicchiere lentamente, lascio i soldi sul tavolo e me ne vado.