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23/02/16

The Message | Racconto in scrittura collettiva

E anche questo secondo esperimento di scrittura collettiva è terminato, e devo ammettere con ottimi risultati. Sarà che la volta precedente era tutto imploso dopo appena due commenti, ma stavolta sono rimasto stupito e non poco. Quindi ringrazio tutti voi che avete partecipato mettendo la vostra fantasia al servizio del gioco.
Ora arriviamo al dunque! Di seguito troverete tutto il racconto senza interruzioni e con giusto qualche modifica per renderlo un po' più scorrevole. Oltre al mio incipit poi, ci sarà anche un finale sempre scritto da me, che ammetto essere stato complicato da realizzare districandomi tra le varie parti (siamo in 17 senza contarmi, wow!). Visto lo spirito del progetto però, vi lascio la possibilità di dire la vostra, e cioè di scriverne uno alternativo in caso ne abbiate voglia. 
Siete pronti? Ecco che abbiamo combinato...

immagine realizzata da Martin Grohs
Era mattino presto e c'erano già 40 gradi all'ombra. Elio guardava le gambe affusolate della signora a bordo vasca, spalmata sul lettino e ben ricoperta di olio abbronzante. Che gran femmina quella! E che coraggio a starsene volontariamente lì, sotto al bollore mortale! 
Lo pensava sudando tutta la birra della sera prima, mentre sistemava gli ombrelloni che ancora stavano in piedi e ripuliva lo schifo lasciato dai balordi. Ogni notte qualcuno scavalcava il muretto e approfittava della piscina (se così si poteva chiamare...) per affossare di un altro po' l'atroce livello di qualità del Coco Bongo, 3 stelle, due appiccicate in entrata con scotch e sputo. 
Che schifo di vita era la sua. Che prospettiva triste per il futuro. Non poteva permettersi nemmeno di vestire decentemente la sua bambina, eppure era lì a cucinarsi la pellaccia facendo tutti i lavori più infami per il signor Bongo. Ma proprio indugiando ancora una volta sul poco svago che le curve della signorotta gli regalavano, ecco una banconota da 500 euro sventolargli sotto al naso.
''Ehi, tu.'' disse la donna indicandolo. ''Vuoi fare un lavoretto extra per me? Ti va di guadagnarti questi in modo facile facile?''
Elio strabuzzò gli occhi mentre la sua testa già diceva sì prima che la bocca articolasse qualcosa di sensato.

18/02/16

Scrittura collettiva? Pronti, partenza... via!

Come vi anticipavo la scorsa settimana oggi si gioca a raccontare un'unica storia tutti insieme. Qui di seguito troverete le regole che DOVETE leggere per poter partecipare, e ovviamente l'incipit della storia che andrete a sviluppare sotto ai commenti. Se volete un esempio pratico del tutto, Qui trovate l'esperimento (incasinato) di un anno fa .

Regole
  • Tutti possono partecipare, sia blogger che non blogger. Per i secondi è sufficiente utilizzare l'account G+ o il commento anonimo (in questo caso è obbligatorio firmarsi)
  • Per aggiungere un contributo al racconto iniziate il commento con la scritta RACCONTO
  • Tutti gli altri commenti sono permessi e non concorreranno al continuo della storia
  • Avete la possibilità di continuare il racconto con un massimo di 2 interventi a testa e di max 5 righe ciascuno (famo 10 se ci sono dialoghi)
  • Se postate il continuo di un pezzo e un minuto dopo qualcuno pubblica il continuo del medesimo pezzo verrà ritenuto valido soltanto il primo dei due. Il secondo sarà cancellato non appena mi è possibile. Nel caso, quindi, ne troviate per mia svista, non considerateli
  • Divertitevi e scrivete liberamente, tutto è permesso, ma cercate di mantenere una coerenza (almeno per i tempi verbali, dai sù) con l'obiettivo di avere una storia... godibile?
  • Tempo per giocare fino a domenica 21 lunedì 22. Martedì uscirà il racconto unificato e finito
  • Condividete, che più siamo, meglio è!

E ora iniziamo da...

Era mattino presto e c'erano già 40 gradi all'ombra. Elio guardava le gambe affusolate della signora a bordo vasca, spalmata sul lettino e ben ricoperta di olio abbronzante. Che gran femmina quella! E che coraggio a starsene volontariamente lì, sotto al bollore mortale! 
Lo pensava sudando tutta la birra della sera prima, mentre sistemava gli ombrelloni che ancora stavano in piedi e ripuliva lo schifo lasciato dai balordi. Ogni notte qualcuno scavalcava il muretto e approfittava della piscina (se così si poteva chiamare...) per affossare di un altro po' l'atroce livello di qualità del Coco Bongo, 3 stelle, due appiccicate in entrata con scotch e sputo. Che schifo di vita era la sua. Che prospettiva triste per il futuro. Non poteva permettersi nemmeno di vestire decentemente la sua bambina, eppure era lì a cucinarsi la pellaccia facendo tutti i lavori più infami per il signor Bongo. Ma proprio indugiando ancora una volta sul poco svago che le curve della signorotta gli regalavano, ecco una banconota da 500 euro sventolargli sotto al naso.
''Ehi, tu.'' disse la donna indicandolo. ''Vuoi fare un lavoretto extra per me? Ti va di guadagnarti questi in modo facile facile?''
Elio strubuzzò gli occhi mentre la sua testa già diceva sì prima che la bocca articolasse qualcosa di sensato.

18/01/16

E non fui più nemmeno questo.

Qualcuno pensa che quando si muore ci sia una luce da seguire e un luogo al di là di quella, fatto di pace eterna e quiete infinita; oppure l'inferno che brucia, la dannazione perpetua a chi si è sporcato l'anima di vergogne innominabili. Altri credono che qui ci siamo per imparare e imparare e imparare, una vita per volta e una lezione dopo l'altra, una scuola senza maestri in cui ogni cosa ti insegna qualcosa, per sempre. E c'è chi invece è convinto del nulla, il niente che è come spegnere un televisore o staccare la spina; zak e sei morto, muto, schermo nero e batterie esaurite, contestate da un ragionevole non lo so, non lo so proprio che cosa ci sia quando si muore, non lo so se ci sia, non lo posso conoscere, ma soltanto provare quando sarà... quando arriverà il momento. La verità, vi dirò, non è nessuna tra queste, ma si avvicina a chi da valore al ricordo dei morti, a chi non dimentica le persone care, a chi le fa mormorare nel proprio cuore, nelle stupide azioni inconsapevoli di ogni giorno.
Quando mi uccisero ero eccitata ed euforica. Una bambina col cazzo duro, le mani insanguinate e il cuore in gola. Essere adrenalina ti fa girare la testa anche se questa è priva di pensieri, se è nient'altro che parte di cadavere, bambola di pezza tra le brame di un lurido. Questo fui in quegli istanti sperduti: sensazioni tanto intense che una persona non potrebbe contenere mai, in nessun modo. Poi diventai altro. Tramutai in un vomito d'ansia e vergogna, urlai tra cumuli di terra e rimpianto finché fracassavo le mie stesse ossa, spezzavo a colpi d'accetta il capo dal collo, maciullavo come una bestia la bambina di tredici anni che non ero più. E infine fui anche timore, paura, terrore, lacrime irrefrenabili di chi realizza di aver perso qualcuno, di chi sa senza saperlo che tua figlia, o la tua sorellina, non tornerà più a casa, non riderà mai più con te, non ti sveglierà ancora con la sua risata.
Ricordo non fu semplice capire, perché non hai più modo di esserti familiare, sei qualcos'altro. Lo stesso ricordare, in effetti, perde di senso in una realtà priva di segni con cui orientarsi. Ci misi del tempo a calzare le mie nuove vesti. Indossavo più aspetti, parlavo più voci, vibravo a molti toni d'umore contemporaneamente. Le notti insonni di mia madre non volevano ascoltare mio padre mentre infrangeva i suoi ricordi più belli, mia sorella mi cercava nei sogni, il mio assassino negli occhi spaventati che mi erano appartenuti e che aveva strappato. A volte davo un bacio a quella ragazzina timida che non ebbe il tempo di provare quest'emozione per la prima volta, altre ingiallivo tra le righe dei vecchi temi che un professore per caso ritrovava nel suo studio. E rimarrete stupiti, forse, nel sapere che anche un luogo può ricordarsi di te, sbadigliando all'alba nel giardino coperto di brina e sognando tra le coperte in cui un'adolescente tormentava le proprie paure.
Il dormiveglia è una confusione insapore che potrebbe farvi avvicinare a quel che verrà di voi. Sei in un letto, sei dall'altro lato del mondo, sei ovunque e da nessuna parte in un istante che inciampa a seconda di ciò che diventerai. Ed io ero così, a osservare il tempo sbiadire ogni aspetto di me, cancellando pian piano ogni riflesso, rendendomi muta e inorridendo chi non poteva più udirmi, spezzando una ad una le vite che tenevano viva la mia, finché non morii davvero.

21/12/15

L'ottantacinquesimo passaggio.

Era una corda di violino, teso all'inverosimile. Il padre del teletrasporto, il genio supremo, se la stava facendo sotto all'idea di entrare in quella porta a sinistra per poi uscirne dall'altra, alla sua destra.
''Forza professore. E' pronto?'' chiese il giovane assistente.
''Ti dirò… me la sto facendo sotto''
''Ma i test funzionano. Non c'è nulla che non vada. Abbiamo provato con''
''Sì sì sì chiudi il becco due minuti per favore?''
Non servivano ulteriori evidenze del proprio lavoro per tentare di rassicurarlo, era irritato e basta, e nessuno meglio di lui sapeva. Erano anni ormai che il teletrasporto veniva effettuato su qualunque cosa, dagli oggetti inanimati ai tessuti vivi, piante e persino animali. Il mondo, grazie all'incredibile invenzione, era cambiando radicalmente. Jason Maxwell: l'uomo straordinario destinato a mutare ogni cosa, di nuovo. C'erano già state a seguito di quella tecnologia una rivoluzione sociale, una economica e una politica senza precedenti per rapidità e naturalezza con la quale si erano innestate e susseguite. Lui era un pioniere, un talento sovrumano, un Dio. Lui era il futuro.
Mancava solo l'ultimo passo. Doveva entrare in quella cabina, far si che il proprio corpo fosse interamente disintegrato, e poi uscire dall'altra, dopo un riassemblamento a livello sub atomico che gli avrebbe dato la sensazione di… no, non la sensazione, l'esperienza di un teletrasporto, un viaggio istantaneo da un luogo, a un altro.
''Tu credi nell'anima?'' domandò lo scienziato a Mike, lì in trepidante attesa.
''All'anima? Professore, non starà per caso''
''Zitto Mike, ti prego. Ho bisogno di silenzio''
''Ma lei…''
L'uomo gli fece segno di stare muto con l'indice. ''Avvia''
L'assistente attivò la macchina. Jason Maxwell si posizionò all'interno della cabina. Doveva solo azionare quel pulsante, premere un bottone, e poi si sarebbe ritrovato dall'altro lato, più veloce di un battito di ciglia, più rapido di un pensiero o dell'intenzione stessa di voler pensare, in molto meno di un miliardesimo di millesimo di secondo. Bastava un click, uno soltanto, e sarebbe diventato il primo uomo a provare il teletrasporto.
Prese un respiro profondo. Contò fino a tre. Premette il pulsante. Era dall'altro lato.
Le sue paure svanirono, ripeté l'esperimento altre tre volte, lo stesso fece il suo assistente e poi seguendo il protocollo anche il resto dei progettisti, degli ingegneri, dei ricercatori, degli scienziati, degli studenti. Erano tutti entusiasti, era un miracolo, il teletrasporto, ma questo già lo sapevano in fondo, funzionava anche sugli esseri umani. Fu il momento più bello della sua vita, fu la scoperta più incredibile del mondo e fu l'incidente più incomprensibile mai visto. Lo stato di euforia cessò all'ottantacinquesimo passaggio.
John Smith si materializzò perfettamente nell'altra cabina, ma cadde a terra faccia avanti, privo di vita. Fu agghiacciante. Per quattro mesi l'attività si arrestò e ci furono studi, calcoli e teorie che andarono stracciate e corrette, risistemate di nuovo e riapprovate. Non capivano cosa fosse accaduto a Smith, se un semplice infarto, una morte naturale, o peggio, qualcosa che dipendesse dal teletrasporto. Nonostante anni di successi quel primo incidente, in concomitanza con la sperimentazione umana, investì Maxwell di una valanga di dubbi, critiche e ripensamenti, ma anche di un inatteso sostegno dal mondo scientifico. Gli dicevano era stata una fatalità proprio come confermavano i dati, concordavano tutti, ma qualcosa nella testa di Maxwell gli impediva di cedere all'evidenza, e senza il suo benestare nessuno rimise più piede nel teletrasporto per molto, moltissimo tempo.
Infine lo fece lui. Una notte. Ubriaco. Si liberò dalle paure insane, da quella stupida idea che lo aveva quasi bloccato la prima volta e si teletrasportò. Funzionò. Certo che funzionò, perché non avrebbe dovuto? E lo fece un'altra volta, e ancora, e ancora, quattro, cinque, sei, venti, ottanta volte. Lo premette per l'ottantacinquesima volta e fu dall'altro lato, perfetto, integro. Quante altre ne avrebbe dovute provare per convincersi che tutto procedeva perfettamente? Cos'altro per crederci? 
La mattina trovarono il suo corpo alla cabina del teletrasporto. Guardò mentre lo sollevavano, mentre tentavano di rianimarlo. Si chiese, guardandosi da lontano, se non fosse tutto uno scherzo assurdo, se fosse colpa del caso, o se davvero non sempre l’anima se ne va di pari passo con la carne. Fortunatamente, ora aveva tutto il tempo del mondo per trovare la sua risposta.

19/11/15

Cattivo viso a buon giocoso.

Metti un paio d'occhiali sopra al tuo paio d'occhiali e hai un totale di quattro lenti: due per occhio. Se ne aggiungi ancora un paio dunque, arrivi a tre per due, tipo le confezioni di uova, e non sei più un gran bel vedere con tutta quella roba addosso. Riccarlo, stufo di essere piacente, quel giorno prese la decisione più coraggiosa della sua vita. Si affacciò alla finestra e fissò il sole. Fffff (rumore di sfrizzare)... lente per lente per lente per due occhi per tre paia d'occhiali per una scarica di raggi fotonici in gentile concessione dalla stella a noi conosciuta come Sole e voilà... occhi fritti!
Preparò la sua colazione con tutta la calma del monarca Luigiquattordici. Si prese gli occhi fritti e aggiunse un occhio di bue dalla confezione di uova, staccò le labbra di pancetta formando un bel sorriso sul piatto e riempì un bicchierone di té al giallo di cui però non citeremo la provenienza. L'english breakfast gli sorrideva bello come Riccarlo, lui ricambiava garbatamente pur privato di bulbi oculari, labbra e occorrenza di urinare. Era proprio un sollievo in effetti che non gli scappasse più da pistoia, eppure era un problema. Ricordava con estrema gratitudine i disagi che il suo essere belloccio gli causava quando girava per strada. 
Le donne adoravano Riccarlo e questo, impaurito dall'oppressivo universo femminile, se la faceva letteralmente addosso ma soltanto se bazzicava nei pressi di Pistoia. Un buon motivo, aveva deciso, per trasferirsi definitivamente in loco. Gli fu chiaro fin da sabato che alle donne non piace l'uomo che se la fa addosso imbrattandosi tutti i pandistelle. Anche perché poi hai voglia a inzupparli nel caffellatte la mattina, ché diciamocelo: quale compagna di vita vorrebbe al suo fianco un tipo che non può svegliarti pucciando il biscottone per colazione? Certo ci sono le feticiste di quella pratica amatoria estrema definita come cascata dorata, ma qui parliamo di persone normali, che diamine, mica di salmoni che risalgono i torrenti!
Dunque Riccarlo stava godendosi la propria libertà gustando occhi fritti, labbrecon, un bicchiere di tè gusto giallo e un vero occhio di bue preso dalla confezione da sei lenti che gli incorniciava la faccia orrenda. Rifletteva su quali straordinarie prospettive gli serbava ora il futuro, così imprevedibile e invisibile, ma soprattutto, così ricco di buoi deficienti di un occhio che avrebbero brucato i prati con una benda piratesca e magari un uncino nella zampogna mancante. Oh, sia chiaro, ovviamente i buoi pirati non possono suonare la zampogna, ma ogni tanto il nostro protagonista faceva ragionamenti un pochino strani e sconclusionati. Insomma, voi ce lo vedreste mai un pappagallo piratesco a dover litigare con la zampogna e le lenticchie in musica per riuscire a tener possesso della spalla del proprio padron Frodo? Non credo proprio. E poi sta frase è così lunga! 
Rifletté dunque ancora un poco nella tranquillità del mattino inoltrato. Infine decise di farsi un giro per Pistoia, di vivere sulla propria pelle l'avversione femminile dovuta non più ai problemi di piucciatura dei pandistelle nel caffellatte bensì a una nuova, frizzante e fino a quel giorno tanto bramata grave mutilazione al viso. Uscì fischiettando felice come una pasqua con giuste cinque uova rimaste, e conobbe così il più bel giornalaio della sua vita. Era l'inizio di una grande avventura.

31/10/15

Âmes d'Encre

Piero e Veronica erano sposati da ormai più di venticinque anni, avevano quattro figli, un paio di cani, una casa incantevole col giardino spazioso e una piscina interrata. Assieme formavano una bella famiglia, davvero affiatata, ed era palese il modo in cui la gente li guardava, così piena d'ammirazione, così ansiosa di precipitarsi ai loro party estivi e alle grigliate. La magnifica facciata però, era tutto ciò che li tenesse in equilibrio, che mandasse avanti giorno dopo giorno la routine dei due coniugi. Le lenzuola soltanto conoscevano la triste verità, quella gelida antipatia che scorreva viscidamente tra i loro corpi incrinati dall'età impietosa e le menti tediate.
Avevano pensato ad un viaggio a Parigi, per ravvivare qualcosa, per rinfrescare le idee e lo spirito, ed eccoli mano nella mano, che passeggiano tra le botteghe degli artigiani più singolari, accompagnati di tanto in tanto da qualche lieve scroscio di pioggia. L'insegna che li attira recita Âmes d'Encre, e loro entrano a sbirciare sedotti da un imprecisato aroma di incenso e dal profumo di...
''Bonsoir, amanti di luce. Amelia è qui per servirvi. Di cosa avete bisogno?''
Veronica s'intrattiene presto a discutere con l'anziana signora mentre Piero, stregato, si perde subito tra oggetti sconosciuti e simbologie antiche, odori, colori e i mille e più tessuti di quel magnifico negozio d'altri tempi. Ogni sorta di veste, ogni tendaggio, ogni coperta, cuscino o lenzuolo è splendidamente creato a mano e arricchito di fantasie tanto particolari quanto affascinanti, misteriose, persino inquietanti. Ogni figura ha una corrente artistica differente, un suo proprio stile, e ci si smarrisce in un'alternanza tale che ogni sguardo è un vortice di art brut e cubismo, impressionismo e decadentismo, surrealismo e romanticismo. Nel singolare stordimento poi, Piero coglie gli altri avventori del negozio e nota, in quel loro pacioso girovagare, quanto siano anch'essi bizzarri e intonati, o meglio stonati, con la bottega stessa. Una particolarità sembra accomunarli. Non ci ha fatto subito caso ma ora non può fare a meno di chiederselo: come mai sono tutti così silenziosi e... in sovrappeso? Si spostano lentamente, barcollando tra gli scaffali e osservano con disinteresse la merce esposta. Qualcuno muove silenziosamente la bocca, un'espressione ebete e vuota, si ferma un po', riprende a camminare.
L'uomo fa spallucce e smette di pensarci, torna a ciò che l'incredibile bottega ha da offrirgli, e inevitabilmente si ferma all'immagine puramente naif di una coppia: due individui scarni stesi uno di fianco all'altro, le dita che appena si sfiorano, addormentati o forse morti, ma in ogni caso, stranamente splendidi, colorati.
''Oui, questo allora farà al caso vostro.'' dice la negoziante portando la moglie a contemplare proprio ciò che Piero già osservava rapito. ''Due amanti, oui? Occhi chiusi, in estasi, due dita che si cercano poco a poco e un letto di giunchi fioriti che si abbracciano proprio sotto di loro.''
''E' magnifico...'' dice Veronica in un filo di voce.
''Magnifico.'' concorda il marito.
''Credete ad Amelia: io vedo nei cuori della gente. Copriletto, lenzuola, federe, trapunta e il tessuto che li rende vivi... non è questo l'importante, ma l'essenziale. E' ciò che questo dipinto qui raffigurato racconta e lascia intendere. Dormirete bene assieme a loro.'' annuncia in un sorriso, ''E farete bene anche qualcos'altro, credete a questa vecchia Amelia.'' termina andando a preparare il tutto per concludere l'affare.

07/10/15

Il bar del pesce giallo

Piove che Dio la manda, così, tutto all'improvviso. Me l'avevano detto che al nord il tempo faceva sempre schifo, ma vai a vedere che davvero la pioggia non ti lascia in pace per più di mezz'ora? Vedo un'insegna luminosa più avanti, corro con l'ombrellino tutto scassato dal vento e la valigetta di lavoro nell'altra mano. Posto piccolo, accogliente, cerco un tavolo in un angolo. Prendo in mano il listino del bar e inizio a sfogliarlo. Le ultime due pagine contengono un racconto intitolato Il bar del pesce giallo, la storia del nostro nome. Il cameriere arriva e chiede cosa voglio ordinare. 
''Una bionda media.''
''A posto così?''
''Sì, grazie.''
Annota, mi ringrazia, e sparisce nell'altra stanza. Inizio a leggere.

Come si divertiva lui a fissare le persone forse nessuno mai. Traballavano un po', e il volume della musica assecondava il quadretto frenetico riflesso sulle spine di birra. Appoggiato al bancone, la testa abbandonata su un braccio, osservava chi alle sue spalle si stava vivendo la serata. Li vedeva allora obesi e bassi appena prima di scomparire dietro la sua faccia, e poi lunghi e smilzi quando s'allontanavano, fino a che non si notavano più e restava il metallo lucente del rubinetto, sporco di macchie.
''Dai, fammene un'altra.'' 
Guardò il boccale riempirsi, la bionda scendere fresca e invitante, la gente deforme riflessa sulla sua sinuosa e personalissima fonte di felicità. Bevve sporcandosi di schiuma fino al naso, ne scolò metà, appoggiò il boccale e lo fissò tornando a ingobbirsi sul bancone.
''Vuoi forse farmi morire?'' domandò il pesce che nuotava nella birra.
''Sì, odio i pesci rossi''
''Sono un pesce giallo, sei cieco?''
''Solo un po' sbronzo.''
''Vaffanculo, se la metti così, beh io inizio a cagare allora!'' disse il pesce giallo, iniziando a defecare dentro la sua birra.
''Ou, tu.'' chiamò il barista. ''Questa birra non è buona. Vedi? C'ha cagato dentro.''
''Mi scusi?'' fece il giovane un po' a disagio.
''Sì, sì, questo cazzo di pesce mi ha cagato dentro alla birra ti dico. Li vedi? Li vedi i suoi stronzetti?'' chiese alzando il boccale mezzo vuoto.
Il barista non capiva. ''Se vuole gliene porto un'altra.'' disse cercando con lo sguardo il suo superiore.
''Un'altra? Se le fate tutte con questi pesci che ci cagano dentro io non lo so se ne voglio un'altra!''
''Sei proprio un deficiente.'' fece il pesce giallo ridendo, nuotando nelle bollicine di birra.
''Tu sei proprio un figlio di troia invece!'' urlò lui puntando il dito al bicchiere.
Notò, riflessi sulle spine di fronte, i clienti alle sue spalle. Parlavano ora a bassa voce e lo fissavano.
''Che cazzo avete da guardare?'' si girò, ''Ma l'avete vista la merda che vi rifilano in questo locale? Pesci rossi che cagano i loro stronzi dentro alle birre! Ma dove siamo finiti? E voi la bevete! Guardate qua!'' fece alzando la sua bionda in modo che la vedessero.
''Sono un pesce giallo brutto deficiente, che cazzo di problemi hai?''
''E sono stronzi pure i pesci, l'avete sentito?''
Chi rideva, chi lo filmava, chi tornava a ignorarlo allontanandosi o usciva dal locale. ''Ahh ma andate a fare in culo pure voi!''. Tornò a girarsi verso il bancone, fregandosene di tutti.
''Mi dia pure.'' disse l'altro barista. ''Non gliela facciamo pagare ma la invitiamo a uscire dal bar.''
''E perché? Io voglio soltanto bermi una cazzo di birra come si deve, e voglio pagarla, non voglio dover uscire perché voi ci mettete i pesci rossi che ci cagano dentro!''
''Pesce giallo!'' fece il pesce, mentre veniva portato via assieme al suo boccale.
''Signore, la prego, sta infastidendo i clienti. Non ci costringa a chiamare i carabinieri.''
''Ma siete tutti deficienti?! Dia qui!'' disse togliendolo dalle mani dell'uomo. ''Me ne vado sì, da questo posto di merda. E si tenga i soldi di questa merda di birra piena di stronzi di pesce rosso! Che non sono mica un pezzente come volete far credere a questi imbecilli che non capiscono un cazzo.''
Lasciò cinque euro sul tavolo, si alzò, e imboccò l'uscita col bicchiere in mano.
''Sono un pesce giallo ti ho detto!''
''Sai cosa c'è? Mi hai proprio rotto i coglioni!'' rispose tra gli sguardi preoccupati dei passanti.
Lanciò il boccale per terra, il vetro esplose, la birrà schizzò via assieme alla merda di pesce e al pesce.
''Così impari, pesce giallo di merda! Pesce giallo, pesce giallo, così impari, impari, merda!'' prese a sfogarsi, urlando per tutti e cinque i minuti che ci vollero prima che le forze dell'ordine arrivassero per portarlo via. 
Per terra, ovviamente, solo vetro e birra. 

''Ecco a lei la sua birra.'' mi dice il cameriere.
''Grazie. Ma, questa storia del nome del bar?''
''Oh, storia vera. Il locale ha preso questo nome tre anni fa, per via di quel matto che vedeva i pesci gialli nella birra. La gente è rimasta così colpita da quell'episodio che c'ha spinto a prenderne spunto.''
''Bah, che storia strana. E il tipo che fine ha fatto?''
''A quanto dicono è finito in manicomio, o qualcosa del genere. Beh, è quello il posto giusto per matti simili, dico bene?''
''Ah... sì sì, lo penso anch'io. Beh, bella storia, grazie eh!''
''Si figuri. Grazie a lei.'' fa andandosene.
Prendo in mano il boccale, faccio per bere e...
''Ehi, vorrai mica buttarmi giù?'' mi fa un pesce giallo che nuota nella birra.
Mi guardo intorno. ''Nnnooo...'' gli rispondo. Poso il bicchiere lentamente, lascio i soldi sul tavolo e me ne vado.

Veleno

Com'è sbagliato desiderare qualcosa che non puoi avere? Quanto stupido morire d'amore? Hélène se l'era chiesto a lungo, tormentandosi come un cane ripensando alle sue stupide voglie. Lui non aveva detto una parola, non una confessione. Le era bastato uno sguardo e il tradimento della sua bocca, aveva fatto fuggire un sorriso verso la creatura sbagliata.
Il mondo degli spiriti le era usuale e congeniale, secoli di esperienza rendevano Hélène sicura di sé come fosse a casa propria; quello della carne, però, le serbava insidie che sfuggivano al suo controllo, e ora era vittima di una specie quasi estinta, di un fascino antico che... Dio, era irresistibile.
Non pensava ad altro, si toccava e ansimava e godeva immaginando quella bestia avvinghiata al proprio corpo, la sua pelle delicata alla mercé della più vorace tra le bocche. Bramava un piacere che le era precluso e che l'aveva solleticata appena, mostrandole cosa volesse dire realmente godere della vita e della morte, godere nella carne.
Toccò l'orgasmo e rimase ansimante tra le lenzuola, sudata, esausta, col cuore a pezzi. Si sentiva tradita e stupida. Lo stomaco chiuso raccontava un vuoto incolmabile, le diceva che la solitudine che tanto aveva amato era ormai un peso che non poteva più trascinare.
Le candele bruciavano a pelo d'acqua. S'immerse lentamente, lasciando il capo fuori. Il riflesso del proprio volto, distorto dai lumini, le sorrise maligno. 
''Lui morirà.'' disse l'anima avvelenata.
''Come?''
''E' accaduto questa mattina. Il suo destino è limpido come lo specchio di queste acque, profumato come queste candele. La sua natura perversa lo condannerà.''
Hélène non rispose. Distolse lo sguardo dal proprio io, ricordando la ragazza, pentendosi di quel che aveva fatto. 
''Sai che è questo che vuoi.'' disse ancora.
Incrinò la quiete dell'acqua, zittì il proprio riflesso, uscì e si rannicchiò in un angolo piangendo. Voleva stare sola, non sentire la verità, ma nel profondo, la verità parlava ancora, non poteva ignorarla, e diceva: se non possiamo averlo noi, allora nessun altra potrà averlo mai.

05/10/15

Vanesia

Frenetica innervazione di sangue. Violaceo, ritmico, pulsava nell'aria viziata di corpi sudati, sfiorandogli le narici. Dov'era lei, creatura bramata da sempre? Un profumo disegnava la notte tra le luci fluo della discoteca. Si guardarono. Eccola, meravigliosa, meravigliosa regina.
S'insinuò con le mani sotto le vesti della ragazza, graffiandola. Pelle come il latte, piccoli nei, un odore bello da morirci. Ed era sua, era soltanto sua, spogliata di tutto in un bagno lurido, nuda di ogni pudore o vergogna, sedotta dall'essenza profonda che lui solo sapeva possedere. Le disse, mordendole il lobo dell'orecchio: ''Vanessa, io ti amo, io ti desidero con tutto me stesso.'', e scese piano, frenando per gioco l'istinto di azzannare, scese giù giocando la lingua sui capezzoli turgidi, scese giù respirandone il profumo, scese giù perdendo ogni freno, inchinandosi tra le gambe nude di Vanessa, per darle un assaggio di quel che sarebbe accaduto poi.
Lei non poteva fermarsi, nessuna mai a questo mondo avrebbe potuto. L'angolo della bocca, labbra delicate da mordere, il suo collo, il suo collo benedetto e lui disgraziato in eterno, che finalmente l'aveva trovata. Affondò i canini, succhiò il suo orgasmo, vennero insieme, affondò nella carne, nel piacere, nel godimento proprio e di lei, affondò ancora, ancora e ancora bevendone l'anima.
Le strappò la gola agitando le fauci, pura libidine, sangue e carne maciullata nelle mattonelle luride e i bassi lontani della musica, che tornavano assieme al respiro e la quiete.
Vanessa cadde a terra. Morta per l'ultima volta.
Vanessa aprì gli occhi, per sempre vivi, in eterno.
''Mia signora.'' le disse non più solo, ''Mia signora.'' ripeté, ''Mia...'' indugiò ancora. Inspirò. Espirò. A fatica. ''Mm...'' disse stringendosi una mano alla gola, al petto. Soffocò di terrore, soffocò tra le braccia disperate di Vanessa, che non capiva e piangeva, che lo stava perdendo. ''Mmm...'' lamentò per l'ultima volta la creatura, vedendo l'oscurità che se lo veniva a prendere, perdendosi nel perpetuo nulla.

precedente <--- Viola
continua---> Veleno

02/10/15

Viola

Provò curiosando le varie fragranze. Arricciò il naso più volte dal disgusto: ''Schifezza! Non sta bene con la mia pelle.'' ripeteva irritata all'amica, che la ignorava. ''Che cazzo. Qual era, vediamo... quello della pubblicità con la Portman che...'' disse tra sé scrutando il muro di boccette.
''Forse, se posso consigliarle, questo potrebbe fare proprio al caso suo.'' fece gentilmente la commessa, stuzzicandole l'olfatto con un'essenza... ''Diabolica! Un'essenza diabolica, a mio parere. Giovane e bella come sei, sì, direi che fa per te.''
La ragazza arrossì per il complimento, nonostante fosse abituata a riceverne. La montagna di sfigati che speravano di scoparsela era solita riempirla di elogi e sdolcinatezze. ''Ma grazieee.'' cinguettò. ''Dice che davvero può andare?''
La commessa sorrise estasiata. Lei si sentì nuovamente in imbarazzo. Percepì di avere fascino, cosa che, data la sincerità della donna, la lusingò parecchio. ''Vedrai.'' pronunciò annuendo, e quella sera, come predetto, Vanessa vide.
Accadde molto in fretta, come giusto che fosse. Quel ragazzo la stava guardando ballare ed era figo, figo, figo, figo. La fissava, la voleva. Tra tutte le altre aveva scelto proprio lei. Ok, ma era giusto che fosse così, perché stupirsi? E sembrò pure gradire il profumo, notò. La donna aveva fatto centro.
Sotto gli sguardi ammiccanti delle amiche si fece prendere per mano dal ragazzo e lo seguì, anche se stava finendo nello squallore di un bagno maschile. Qualcosa dentro di lei le suggerì di scappare. Il bagno, in effetti, faceva schifo. Qualcos'altro invece, di molto più forte, la inchiodò al muro e la fece gridare di piacere. Era fantastico, era bellissimo, improvviso. Lo desiderava come nessun altro prima d'ora. Era pazza di lui e non si spiegava il perché.
Il ragazzo la baciò appassionatamente, baciò tutto di lei, e si sentì amata, voluta, desiderata. Più di tutto però, godeva, e vedendosi sporca come una cagna in calore si eccitò ancora e sempre di più, premendogli la testa tra le gambe perché ne voleva ancora, perché quella bocca e quella lingua la stavano facendo impazzire. 
Si baciarono di nuovo. Si guardarono negli occhi e nell'anima. Lui le respirò il profumo dal collo. E la morse. Fu indescrivibile come volare, come le vertigini e la gioia, l'esaltazione, come il vento tra i capelli e il sole sulla pelle, come l'acqua dopo un tuffo, come il primo bacio e la prima volta, e il sapore di un buon vino e l'ebrezza dell'alcol, l'euforia della migliore tra le droghe. Puro piacere in cambio di se stessa, rapita assieme al sangue che sgorgava in una beatitudine orgasmica, il piacere perfetto, sublime. Fu come morire e poi rinascere.

continua---> Vanesia 

14/09/15

Ti porto due doni.

Ti porto due doni.
E tu, da dove arrivi? Sei un angelo? 
No, non lo sono.
E che cosa sei? Dio?
Non dire sciocchezze. Prendili, avanti. Vedi? Questo è buon senso.
Che dovrei farmene?
Per esempio, eviteresti domande stupide. In secondo luogo, sapresti scegliere se accettare il secondo dei regali che ti porgo: la verità.
Verità riguardo a...?
Questo è il buon senso che parla per tua bocca, lieto tu abbia accettato. Conoscerai il tuo destino, il destino di un uomo e il ciclo delle cose. Soddisferai una semplice curiosità, la domanda che ti fai da qualche tempo.
Sulla mia fine?
Sì, sulla tua fine.
Il buon senso dice che farà male, ma non dice quale parte.
Conoscerla, viverla, affrontarla. Potrebbe essere una tra queste o tutte e tre assieme.
Credo che... credo che accetterò comunque. E poi sono ancora un bambino, il tempo è dalla mia parte.
Il tempo, dici.
Accetto il secondo dono.
Non vorresti sentirti dire che alla fine inebetirai il dolore nei ricordi annebbiati, sorridendo amaro di amori e amicizie che il caos ha portato via. Non vorresti sapere che nutrirai ogni giorno che rimane mordendo rimorso per le occasioni perdute e ogni parola non detta, che ti piegherai in due vomitando null'altro se non sofferenza e paura sudata e che ne avrai i vestiti impregnati, di entrambe. Non vorresti vederti mentre cerchi rifugio come un verme sotto le lenzuola, trovando scioccamente le mani di tua madre in quelle di un'infermiera che ti rimbocca le coperte, perché quando sarà il momento nemmeno il tuo Dio ti darà consolazione. Se sarai fortunato, sarà il tuo male a renderti incosciente  abbastanza da non vivere il tramonto.
Vorrei consolarti, credimi, ma non lo farò, perché tu hai accolto la verità, e la verità è che continuerai a esistere come se tutto fosse possibile per sempre, come fossi immortale, infinito, invincibile, perfetto. Crederai con tutto te stesso di essere il protagonista di una storia incredibile, il solo di cui valga la pena parlare e innamorarsi, l'unico che dovrebbero ammirare, qualcuno di veramente speciale. Sentirai perciò la bruttura di quest'ingiustizia nel gonfiore stantio del tuo stomaco quando la malattia verrà a prenderti, te ne scorderai quando riuscirai a combatterla. La senilità infine prenderà sottobraccio la tua anima, ti incrinerà nella flaccida debolezza delle tue carni, tra le rughe di un viso che non sembrerà più il tuo, e lo specchio ti guarderà malinconico dicendo che ieri, appena ieri, non era così, ma era tutto diverso, era possibile. Ieri potevi ogni cosa ed è passato così in fretta, ieri ne valeva la pena, ogni cosa, anche se priva di un senso, persino la noia, la stupida inutile noia, e nell'oggi ti maledirai come un cane, perché come hai potuto lasciarglielo fare? Quando è successo? Ti resterà il conto da pagare e perduto come un bambino ingoierai tutto il resto del tempo smarrito, legato in un cappio stretto dentro alla gola. Il senso però starà tutto lì: quel conto non potrai far altro che saldarlo.
Ma tu chi sei? E perché mi dici tutto questo?
Credo tu sappia bene chi sono io.
Il... tempo?
Io sono il Tempo.
Perché hai fatto questo per me? Per un bambino?
Buon senso e verità, sono doni che non sempre le persone accettano. Gli adulti, la paura di aprire gli occhi...
Anche i bambini hanno paura.
Una paura differente, non la nebbia calda sopra l'oblio, l'appiglio di stracci che lo sfida, inutile.
Non hai risposto. Perché hai fatto questo per me? Un bambino?
Domanda, ormai, scorretta. Di quale bambino parli?
Che... significa? E perché continui a non rispondere?
Non posso che sorridere all'evidenza dei fatti, resasi così ambigua nelle tue convinzioni. Ciò nonostante, non sei lontano, e non è mia intenzione eludere la questione: è l'effettiva mancanza di prudenza, innata nei giovani innocenti, che mi ha spinto a farlo, la genuina ribellione verso quell'appiglio. Ma tu, in tutto ciò, ancora non poni attenzione: non sei già più, un bambino. Che farai ora?
Io... io credo che... urlerò. Urlerò per provare il mio nuovo grido. Sarà divertente.
Sarà divertente.
Sì, e credo che poi me ne andrò a giocare, perché perché... insomma, cos'altro potrei fare a questo punto?
Già, cos'altro?
Quindi ti saluto, se per te va bene. Ci rivedremo. E... grazie di tutto.
Non potevi fare scelta migliore. Io, non potevo farne una più curiosa.

24/08/15

Non te lo dicono gli occhi.

Il buio per molti ha un colore preciso: il nero. Nero come la notte senza luna né stelle, nero come la veste delle suore che si privano di ogni altra sfumatura, nero come il mondo che scegli di vedere quando chiudi gli occhi perché di vedere, in quel momento, non ne hai per niente voglia. Lei, che di occhi buoni come i nostri ne possiede di certo, e forse pure di migliori, ricordava appena cosa significasse il colore nero, e in egual modo aveva soltanto una vaga sensazione di cosa fosse in effetti il colore come concetto.
Era questo il nocciolo del problema: l'idea di colore, di vista, di forma e dimensioni, spazi tangibili e misurabili, l'aveva perduta per qualche strano scherzo della mente. Il suo cervello, da un giorno all'altro, aveva deciso che non ne valeva la pena di ricordarsi di cosa fosse la vista, e nonostante gli occhi funzionassero in realtà alla perfezione, non servivano al loro scopo tanto quanto avrebbero fatto un paio d'orecchie in un mondo sotto vuoto e privo di suoni.
Il buio le appariva vivo proprio quanto il suo contrario. Il senso privato, per lei, non era una mancanza poiché non ti manca ciò di cui dimentichi l'esistenza, e tale era il suo bizzarro stato che gli altri quattro sensi, decisi a compensare, donavano vita vera a ogni cosa e in ogni momento, persino al silenzio, persino al buio di una stanza scordata da tutti.
Un giorno mi disse che ero bellissimo. Le chiesi il perché, curioso di capire in che modo. Guardava in un senso che solo lei sapeva, uno che potevo forse capire ma non comprendere, il che è buffo pensando che quello privato di qualcosa, in difetto, non ero di certo io. Domandai allora di dirmi cosa ci fosse in me di tanto bello, e capii infine che l'aspetto di cui ci circondiamo è il limite più grande in cui imprigioniamo noi e l'esistenza stessa, poiché pieghiamo tutto sotto di esso, anche ciò che non può essere visto.
Quando le chiesi di me, certo sapevo non avrebbe tirato in ballo l'aspetto, ma piuttosto il carattere che dimostravo di avere, o il modo in cui l'accarezzavo e baciavo, o ciò che le raccontavo e trasmettevo nei momenti che passavamo assieme. Parlò invece di tutt'altro, di visioni a dir poco impossibili, troppo complesse per essere percepite facilmente, per esserne colpiti; visioni che se ragionate hanno una loro indubbia bellezza e poesia, sia chiaro, ma inadatte a me e a noi, a un mondo di struttura e occhi che appare tanto logico e assurdamente scontato.
Mi raccontò del profumo buono delle mie parole e di quello aspro di certi silenzi, disse che le piaceva il ritmo che la natura aveva dato mio corpo, e trovava irresistibile e sorprendente la risata oscena che erano i miei capelli, pungenti come spine di rosa e altrettanto delicati. Quel che eravamo noi le era ben chiaro. La complicità, i mille difetti, i momenti dolci e quelli impossibili. Non le era ovvia, invece, la parte di me più fisica, quella che persino un bambino potrebbe disegnare con una matita e un foglio. 
Imparai da lei che se non sai cosa significa vedere, se scordi all'istante tutto ciò che il tuo sguardo può cogliere, allora ogni giorno è una sorpresa, e ogni logica perde la sua ovvietà. Tra tutte, mi confessò, io per lei ero la sorpresa più bella, e fu avvilente accorgermi di quanto per me fosse una sconfitta non sfiorare nemmeno quel che lei capiva all'istante. Il buio per me era nient'altro che nero. Il nero, per lei, nemmeno esisteva, ma esisteva il buio.

12/07/15

Vuoto a metà.

Come tagliarsi le vene, sentire le forze lasciarsi al pavimento in una macchia sempre più larga, più lenta, più densa. Non c'erano più le gambe, non parevano sue, arti insensati di una marionetta, e la volontà di muoverle inutile, come ci fossero i fili ma tagliati da un sadico. 
Quattro lattine di birra lo fissavano dal tavolino, tutte e quattro mezze vuote. Quella che teneva in mano sgocciolava in un rivolo gelido, strisciando tra i peli stizziti dell'avambraccio.
Formicolava. Il sangue, in quella posizione, a penzolare sul bracciolo del divano, non passava.
La tv dava uno di quei pallosi talk show domenicali anche se era di lunedì. Era pomeriggio, il sole faticava prima tra la tapparelle del soggiorno, poi tra le nuvole fuori. Gli venne su birra acida con un rutto. Rimandò giù. Cambiò posizione fissando le tette della presentatrice alla tv. La circolazione scaldò le dita, si passò la lattina nell'altra mano, il culo riprese sensibilità e lentamente anche le gambe. Ingoiò alcuni sorsi decisi, e quando sentì che il sapore era troppo dolce perché la birra troppo calda, fece largo a un altro spettatore nel suo piccolo pubblico di omini di latta. 
Si parlava di un omicidio prima, ora dei diritti dei froci. Quanto li odiava lui i froci. Volevano dei figli. A pensare a i suoi, di figli, gli prese di grattarsi l'uccello. Tolto il fastidio già che c'era, restò con la mano nelle mutande finché non gli venne duro, poi iniziò a farsi una sega con le tette della presentatrice.
Faceva caldo. Il sudore colava da sotto l'ascella correndo giù fino al divano. Era uno spettacolare grassone a mutande calate intento a segarsi su un divano di pelle nera. Quando si muoveva un po', rinvigorito dal sesso, si scollava dai cuscini lucidi per trovare una parte più fresca e asciutta. 
Tolse le mutande e le prese con la mano libera, la presentatrice ci dava dentro coi primi piani. Venne per metà nelle mutande e per l'altra centrò il lato del divano. Stremato le abbandonò a terra non prima di usarle per pulire la mira sballata. Tornò a morire nel suo sudore sporco di giorni.
Era come tagliarsi le vene, di nuovo, ma le forze stavolta non sarebbero tornate. Sentiva anche un certo peso allo stomaco. Non era la birra però, né il non aver mangiato, o una delle sue nausee croniche o un dopo sbronza costante. Era la situazione, la solitudine, la sua miseria schifosa, la troia che gli aveva succhiato l'uccello prima e il conto in banca poi, e i suoi figli bastardi, deficienti, ingrati. Non il lavoro, che a dirla tutta non c'era da un pezzo, ma il tempo.
Il tempo gli fotteva il cervello, il fegato, le forze e lo stomaco, soprattutto quello. Il senso di nulla pesante, proprio lì, in mezzo alla pancia, al centro di sé stesso, quel niente lì lo stava ammazzando, e non sapeva che fare.
Cambiò canale, si stese meglio, guardò il ventilatore rotto. Si aprì la sesta lattina di birra e le altre cinque lo guardarono senza faccia, vuote a metà, sul tavolino.


26/05/15

Fino alla fine del mondo.

La pioggia cadeva sottile stagnando nel fetore di Rubbish River. Carcasse metalliche e imponenti torri d'acciaio e titanio riposavano vigili nel silenzio del suo cimitero. S-451 fu scossa da un tuono: ampia differenza di potenziale, scarica pilota a carica negativa, discendente. Il rombo le invase i sensori. Il boato delle bombe lo assordò. Fuoco, fuoco, rispondere al... scattò sulle gambe, si aggrappò al mitragliatore, premette il grilletto. Vomitò una torma di piombo alle trincee austriache, lordando il buio di sangue e fango.
C'era pioggia, ancora, sottile come la falce di luna ghignante sui loro crani sgraziati. Proiettili nemici frugarono a vuoto sfiorando i loro elmetti. Al riparo! disse Fedele. Strisciarono giù, vermi nel fango, tra gli amici, sanguinolenti alcuni, cadaveri altri. Terreno vibrante di bomba a mano, un lampo che molestò la notte. Si premette le mani sulle orecchie. Fischiavano. Dietro di lui mezzo fossato era ceduto. Continuò a strisciare, Via via via! affogando le unghie nella melma per tirarsi avanti, unghie di lega metallica incastonate in arti meccanici e feriti di ruggine.
Dove si trovava S-451? Quand'era successo che la fine venisse a trovarla? Un rantolo cibernetico le si arrampicò per la gola. Avesse potuto, al sentirlo, sarebbe rabbrividita di paura. Quanti danni riportava il suo involucro dannato? Strinse i resti del traliccio che le stava di fronte. Voleva uscire, arrampicandosi fuori dall'inferno, vedere il cielo. Il bollore al cuore del petto gelò il desiderio di fuga: sistema refrigerante andato, blackout stimato in tre minuti. S-451 sentiva di respirare fuoco. La maschera, cazzo la maschera la maschera ripeté nel panico avvolto dai fumi asfissianti, che mefitici, si trascinavano lungo i bordi delle depressioni amiche per poi discenderli. Se non potevano perforargli la carne, gli austriaci li avrebbero uccisi per asfissia, ammazzando i disgraziati che tentavano la fuga dalla trincea. 
Gli occhi bruciavano, prese l'ultima boccata d'aria buona e scavò avidamente tra i corpi dei soldati. La maschera era tutto. La nebbia calava rapida, una ghigliottina gelida dritta sul collo e terrore sudato che gli graffiava la schiena. Artigliava componenti di corpi robotici, scarti di androidi, vetusto splendore della civiltà tecnologica che fu. Avesse avuto pelle e sangue e umanità vera, anche all'esterno, S-451 sarebbe stata ugualmente al limite, spinta dall'adrenalina a fare l'equilibrista sul ciglio della morte. Afferrò l'ennesimo appiglio, strinse con le dita inumane, uscì dal baratro abbandonandosi al cemento gelido. 
Blackout stimato in trenta secondi. La carica, induzione elettromagnetica, distava centosei metri virgola quaranta. Si mise in posizione eretta, un passo dopo l'altro, le giunture deteriorate. Stimò il momento d'arrivo. Calcolò fosse la fine. Eppure non si fermò. Trenta secondi di vita, di coscienza, di ricordi di un'umanità antica che arrancava verso un futuro salvifico visibile, ma irraggiungibile. Il cuore gli pulsava nelle gambe, negli occhi irritati, nella testa. I polmoni volevano gridare, frustandogli le costole per poter ricevere un po' d'aria. Ma i fumi erano ovunque, erano nebbia nella notte, un velo latteo che copriva di morte la resistenza italiana. La necessità prese allora il sopravvento. Doveva andare in alto, doveva cercare ossigeno buono, non sarebbe morto anche lui là sotto. Si spinse oltre il fossato, uscì allo scoperto, bersaglio perfetto per il nemico spietato. Corse voltandogli le spalle inalando piccoli respiri filtrati da nient'altro che la sua manica lurida. Qualche sparo, di tanto in tanto, riprendeva dal fronte opposto, ma la stesso pallore letale ora lo rendeva invisibile ai propri carnefici. 
Fu il fuoco alleato a sorprenderlo, scorgendo la sua sagoma in corsa. Due colpi, uno alla spalla, uno al centro dello sterno. Cadde in ginocchio, respirò i gas mefitici piangendo lacrime acide. Gli italiani, i suoi italiani, stavano rinforzando le fila. Incontrò di sfuggita, tra i fumi, i loro visi celati dalle maschere. Occhi impenetrabili, glaciali, freddi, inumani, che non lo scorsero nemmeno. Era la sua ora e pensò alla sua splendida moglie e le sue bellissime figlie. Pregò perché il fronte non cadesse tendendo una mano al cielo. Provò, nel suo ultimo istante di vita, a gridare il suo terrore, ma non un suono riuscì a trovar voce. Morì lì, con la coscienza in tumulto e una mano artificiale tesa in avanti, a pochi passi dalla fonte. Quel giorno, con l'A.I S-451, sparì l'ultimo sentimento dell'uomo, il suo ultimo ricordo, e l'ultima traccia di ciò che a sua immagine era riuscito a creare.

02/05/15

Una sega in mezzo al mare.

Ti senti così piccolo, così niente, quando sei su una nave in mezzo al mare e il mare è a forza 9. Ci sarebbe da perdere la testa non fosse per il vomito. Lui sì che ti ricorda che ci sei, qui e ora, con lo stomaco indeciso che non sa dove mandarlo: un po' lo tiene, un po' lo manda su, il resto lo gronda sul comodino che gli si trovava a tiro. Che poi è tutto chiuso. Uno come me se ne sta in cabina a far niente, a distrarsi con la tv che stride qualcosa per distaccarsi due secondi dal tanfo del secchio stretto tra le gambe. Sia mai rotoli via!
Basterebbe una boccata d'aria. Aria, aria, aria fresca. Quella si farebbe un gran bene. E allora osservi dall'oblò e vedi il mare incazzato, e una porca troia di onda arriva e tu e il secchio e la tv e il comodino e il letto e la lampada andate giùùùù, e poi una spinta un po' verso destra e poi tutti di nuovo suuuu e... e come fai a non rimetterci pure l'anima, Cristo di un Dio?
Non è la prima volta mi capita. Ricordo impazzii di paura le altre. Il pensiero di finire tutti sott'acqua, assieme alle centinaia di tonnellate di container pieni come vacche all'ingrasso, non è proprio facile da scacciare. Eppure oh, il vomito, il vomito ti salva, nel suo tragico a nauseabondo savoir faire. Si potrebbe elogiare questa sua naturale propensione al saper prendersi le attenzioni di cui ha bisogno. All'inizio non ci fai quasi caso, ma poi con delicatezza ti posa una mano tutt'attorno alla pancia. Dapprima è leggera, poi comincia a stringere, lentamente, entrandoti dentro, muovendosi poco ma sempre più intensamente. Un'immagine quasi erotica penserete, qualcosa come una sega allo stomaco, in mezzo al mare, durante la tempesta. Romantico eh? E in effetti, come per la sega, ti concentri solo su quello nonostante il mondo là fuori impazzisca, ansimando di dispiacere, respirando più forte, cercando ossigeno... finché vieni, vieni ovunque e con tutto te stesso, un sussulto bollente che spinge dalle viscere. Già. 
Che schifo. Che paragoni. Ma non ce la faccio, sapete, a pensare ad altro. Sono su questa nave disgraziata, nel mare incazzato, nella cabina striminzita. E non scopo da tre mesi. Qualche porto l'ho anche visto ma... in tempo di tempesta ogni buco fa porto, mi vien da dire, e ci vorrebbe un bel porto sì, cazzo, così ci parcheggiamo la nave, il cazzo, e la finiamo pure con queste fottute tempeste tropicali dell'oceano. Perché ti senti così piccolo, così niente, quando sei su una nave in mezzo al mare, e il mare è a forza 9. E a sapere che ti ci sei ficcato da solo, in questo buco di culo, che puoi fare se non vomitare? Te lo dico io: una sega!

31/03/15

E piovvero bovini.

Fu un giorno davvero strano quello, davvero impossibile. Si capiva che di lì a poco sarebbe arrivata una tempesta, uno di quegli acquazzoni estivi che negli ultimi tempi mettono davvero in casino certe zone del nord Italia. Bombe d'acqua, piace chiamarle ai giornali. Comunque sia, come detto, il cielo non prometteva nulla di buono, e i borbottii dei nuvoloni gonfi sembravano la tosse grassa di un qualche gigante che lassù era tormentato dal catarro.
Quando piovve la prima sfondò un'auto ferma al semaforo. Il conducente uscì vivo per miracolo. Gli altri, dietro di lui, scesero dalle macchine per vedere che diavolo fosse successo. La seconda cadde al bar lì di fianco, trapassando il tetto e fermandosi in un trionfo di urla terrorizzate solo al secondo piano. Prese a tuonare per buoni cinque minuti senza sosta, tanto che dovemmo tapparci le orecchie per non venire assordati. E quando smise, riprese a piovere, ma seriamente.
Guardammo in alto attirati dai muggiti. Sembrava ci fossero, ad agitarsi sopra le nostre teste, come cento e più stormi di milioni e milioni di uccelli, ma man mano che si avvicinavano realizzammo quale orrore stava realmente per scatenarsi. Urlammo terrorizzati, e giunto il panico vero e proprio cercammo riparo un po' a casaccio, sciamando impotenti come formiche molestate da un bambino dispettoso. L'impossibile stava accadendo sul serio: piovevano mucche, a migliaia! 
A ripensarci pare ironico. Sapete, tutti quei muggiti carichi di spavento suonavano grotteschi. Poi le vacche grandinarono al suolo demolendo ogni cosa, e addio muggiti, il frastuono della tempesta fu un crescendo violentissimo di pura devastazione.
Corsi assieme a mia figlia zigzando tra lamiere, carne e tegole che vibravano nell'aria. Scendemmo l'argine del fiume a secco trovando miracolosamente riparo sotto al ponte, e guardammo inorriditi quel tripudio di organi, sangue, morte e... mucche che piovevano maciullandosi al suolo. Fu così per buoni dieci minuti, dopodiché le raffiche di bovini sparirono com'erano venute, simili a una grandinata estiva, lasciando quel piccolo paese in provincia di Vicenza come cancellato da una bomba atomica, col silenzio rotto dalle urla dei feriti e dai versi agonizzanti delle povere bestie.
Pazzesco a dirsi, ma i giorni a seguire fu ancora più assurdo. I giornali accusavano i meteorologi di non aver dato previsioni accurate, di non aver diramato nemmeno un avviso di allerta. I meteorologi a loro volta rispondevano che una tempesta di mucche non si era mai vista in nessuna parte del mondo e mai nella storia dell'umanità, e dissero che tale evento non poteva essere altro che una qualche nuova e sconosciuta arma di distruzione di massa. I complottisti allora si scatenarono, tirando in ballo nuove teorie che ebbero soltanto il merito di pensionare le ormai vetuste scie chimiche, troppo lente, troppo poco efficaci, troppo prive di muggiti. Iniziò l'era delle vacche da guerra! E poi partì la grande macchina della solidarietà umana, con aiuti nelle zone interessate, eventi e concerti per raccogliere fondi a sostegno, recupero psicologico per chi ora aveva attacchi di panico alla sola vista di un hamburger di manzo. Tutto finché la notizia fu vecchia e non fu più notizia, finché ci si dimenticò anche di questo ennesimo orrore.
Sono passati ormai quattro anni da quel terribile giorno, e devo ammettere che io e mia figlia ora stiamo bene, siamo tornati a comportarci come persone normali. Ciò nonostante la mia riflessione non può che tormentarmi giorno e notte, incessantemente. Com'è possibile essere sereni, vivere tranquilli, quando un disastro del genere può cancellarti in maniera tanto imprevedibile nel giro di pochi istanti? Forse è vero, è meglio far finta di nulla, è meglio gustarsi questa costata, e non farsi troppe domande.

16/03/15

Dei vicini deliziosi

Scende dalla panda 4x4 rosso ruggine. Attraversa il vialetto e bussa alla porta tre volte. Da dentro nessun rumore. Si guarda un po' in giro finché non è attirato dallo sferragliare metallico di qualcosa che sbatte. Lo segue girando attorno alla casa e trova una bambina, probabilmente Emma, seduta per terra intenta a tirare martellate a un'auto giocattolo.
''Emma? Sei Emma vero?'' chiede avvicinandosi un po'.
La bimba da altri due colpi, poi ferma il martello a mezz'aria: ''E tu che cosa diavolo vuoi? Fuori dalla mia proprietà!''
''Non dovresti giocare con quello.'' fa lui a mani in alto, avanzando piano. ''Non ci sono il tuo papà e la tua mamma?''
Emma scatta e gli tira un colpo secco dritto sul piede. L'uomo urla di dolore, fa due salti indietro, cade culo a terra, si rialza in fretta vedendo la bambina corrergli appresso roteando il martello a suon di ''Fuori, fuori dalla mia proprietà immonda creatura, rigurgito della società, scroto ascellare, cacatoio infernale!'' 
Incespicando raggiunge la portiera della macchina. Prende la katana da sotto al sedile anteriore e la impugna stando in equilibrio su un piede. Fissa Emma. E' lì, sull'uscio di casa, vestita di un abito bianco coperto da fragole rosse e mirtilli viola, che a sua volta lo squadra, picchiettandosi il martello su una mano. 
''E così vuoi il gioco duro eh?'' domanda l'uomo.
La bimba sputa un grumo catarroso a terra. ''Non ci entri qui dentro, tu non fai un passo di più nel mio terreno, rantolo di pus.''
''Dovresti moderare il linguaggio ragazzina.''
''Cesso intasato taci!''
''Ma tu guarda questa...''
''Fatti sotto ominide sottaceto!'' grida infine caricandolo.
Le due armi s'incrociano a metà vialetto incrinando l'aria con una frustata tanto violenta da incendiare tutti gli alberi del giardino e crepare i vetri delle finestre del signor Carmine, vicino della piccola. Altro colpo, altra sferzata, e le gomme della panda esplodono come palloncini punti da una bazookata. 
''Per Dio! Mi cascasse la dentiera... Agata, Agata! Vieni qui a vedere che succede fuori dalla finestra!'' urla Carmine alla moglie, scostando la tenda e osservando tra le incrinature. ''Quella bambina è il demonio, io te l'avevo detto, è il demonio è un satanasso, lo dicevo!'' continua trovando l'assenso della moglie, preso a fissare lo scontro di martellate e spadate che sta aprendo fossi in tutto il vicinato.
''L'auto, dici che è meglio spostarla?'' chiede Agata preoccupata. 
''Ma neanche per sogno che esco fuori con quei due. Io chiamo la polizia, i vigili del fuoco i pompieri l'Fbi la Cia i cazzo di ghostbusters.  E per il resto ci pensa l'assicurazione, per quest'Apocalisse.''
''Ma mica è assicurata per... l'Apocalisse.''
''A no?''

03/03/15

Omicidio nel bosco.

Quello che segue è un racconto inizialmente nato durante un esercizio di scrittura, uno di quelli che si fanno al corso del buon Riccardo dal Ferro (Ferruginoso per gli amici), che sto seguendo da un mese a questa parte. Lo scopo dell'esercizio era limitare il senso della vista e provare a raccontare usandone un altro, espediente questo non troppo utilizzato, dato che spesso e volentieri ci si affida proprio (e solo) agli occhi.
Dopo una piccola revisione e alcune modifiche allora ecco il risultato. Ovviamente sta a voi capire quale (o quali) dei cinque sensi ho utilizzato per raccontare.

La bocca gli scoppia di vermi, viscidume strisciante fatto della sua stessa lingua, ora fredda ora devastata, di carne strappata. Urla faccia a terra, morde il terriccio del bosco, che lo bracca girandogli attorno, ovunque e da nessuna parte. Ragni di acido scalano l'esofago, singhiozzano in rovi di rutti spinosi.
È steso da un po'. Il cuore preme incessante sul collo, sgorga ruggine dalle gengive rotte.
Lì accanto nota un sorriso sghembo, nocche vibranti lordate da schegge dei suoi propri denti. Grugnisce qualcosa, sputa, inspira sporco e aghi di abete. Dov'è il suo volto? Dove gli occhi, le unghie, i timpani? C'è solo bocca, bocca ovunque, e fronde di prurito dannato che graffiano l'arido in gola. Strisci come un verme... guardati, gli dice l'uomo.
Una stretta allo stomaco, acido di resina, bava fungosa, sapore di ossa, succhi gastrici, reflussi bollenti, veleni letali. 
L'uomo distoglie lo sguardo, è troppo per qualsiai stomaco. Prende il telefono, È sistemato, fa al suo capo, poi riattacca, lasciando il morto tra gli alberi.

22/02/15

Guidato dai fili

Mi svegliai al rumore del fulmine. Doveva essere caduto in zona. Restai un attimo in silenzio, in compagnia del sonno pesante degli altri e del ticchettio delle gocce sulla tenda. Sgusciai fuori dal sacco a pelo, infilai le scarpe e il k-way, presi la torcia e andai fuori. Un albero, a una ventina di metri da noi, era stato squartato in due dalla scarica. Decisi di vederlo da vicino, spinto da una sensazione.
Avanzai, i piedi sempre più fradici ad ogni passo, guidato dal fascio della torcia e dai flash del temporale che rimbalzavano nella  boscaglia. Raggiunsi il mio albero. Restai a fissarlo col cuore in gola. Davanti all'arbusto, in un cerchio fumante marchiato sul terreno, stava un uomo completamente nudo, e mi osservava. Quell'uomo ero io.
Lo raggiunsi e mi tolsi il k-way e il maglione per coprirlo dal gelo.
"Ha funzionato." disse impassibile.
"Che cosa ha funzionato?" chiesi aiutandolo a ripararsi.
"Il viaggio nel tempo. Dovresti saperlo. Oggi è il  3 marzo 2032, e io sono te, proveniente dal futuro."
Restai senza parole. I miei attuali studi sul viaggio nel tempo avrebbero quindi trovato un senso? La risposta era ovviamente davanti ai miei occhi. Avrei viaggiato nel tempo e mi sarei ritrovato, incredibilmente, proprio qui e ora.
"E tu, quindi... da quando vieni? Dio, non posso crederci. Allora ce la farò davvero!"
Il me del futuro mi guardò tristemente. "Ce la farai, certo. Io provengo dal 4 febbraio 2056. Come noterai, sono un po' più vecchio di te." rispose stringendosi nei vestiti.
"Non di molto però." replicai euforico, notando solo ora gli anni in più sulla sua pelle.
"Il punto è, che non abbiamo inventato il viaggio nel tempo. Non solo quello, almeno."
"Che intendi?"
"Ebbene... mi sento come, costretto. Io credo abbiamo inventato il destino, credo ne abbiamo involontariamente scoperto l'essenza. Questo momento io, l'ho già vissuto anni fa, ma nella tua pelle. Un me dal futuro, proprio oggi, era qui giunto, dove sto io ora, e mi disse le medesime e precise parole che sto pronunciando. Non solo, io stesso a quel tempo agivo esattamente come tu stai ora facendo. È più forte di me e di te, il tempo incede identicamente ad allora, io ripeto azioni già viste, pronuncio frasi già parlate, e tu consumi una vita più e più volte vissuta, da qui al 4 febbraio 2056, forse oltre, intrappolato nelle regole del tempo per non mandare l'universo in frantumi. Non potrai farne a meno."
"Regole... l'avevo teorizzato."
"Lo so. Fortunatamente, d'ora in poi, per quel che mi riguarda, mi sembrerà d'esser libero. Buona fortuna."
Detto ciò, il me del futuro si allontanò nel buio del bosco, e io me ne tornai alla mia tenda, comandato dai fili del tempo, ragionando sul tempo.

03/02/15

Scrittura collettiva! Pronti? Partenza, via...

Buongiorno cervelli. Come vi anticipavo martedì scorso oggi iniziamo a giocare scrivendo un racconto unico tutti insieme. Prima di lasciarvi all'incipit, da cui voi poi partirete evolvendo (o stravolgendo) la storia, vi do qualche regola da tenere presente, giusto per non creare confusione.

  • Può partecipare chiunque con massimo due interventi, chiaramente non consecutivi, sennò che gusto c'è?
  • Si continua la storia agganciandosi all'ultimo commento postato (maddai!?), e non ci sono limiti di genere: sbizzarritevi.
  • Se postate il continuo di un pezzo e un minuto dopo qualcuno scrive lo stesso seguito, vince il pezzo pubblicato prima (guarderò l'orario). Chi pubblica per secondo dovrà cancellare e riscrivere, mi spiace.
  • Il vostro pezzo non deve superare le 5/6 righe. Nel caso ci siano dialoghi facciamo che potete arrivare anche a 10, dai, insomma non sto a rompervi la palle ma non dilungatevi troppo.
  • Per aggiungere il contributo al racconto iniziate il commento con la scritta RACCONTO.
  • Se volete semplicemente commentare, senza giocare per forza quindi, potete farlo liberamente.
  • Domenica è l'ultimo giorno possibile per poter scrivere, dopodiché stop ai giochi. Il finale, ovviamente, lo aggiungerò io, quindi non perdetevelo, che martedì prossimo, il 10, pubblicherò qui il vostro operato tutto d'un pezzo.
  • Una condivisione sui social, anche nel caso non voleste scrivere e giocare, è sempre benvenuta e di grande aiuto.

E ora, iniziamo sì o no?

''Papàààààà. Paaaapiiiii. Vieniiii?''
''Aspetta due minuti amore, finisco un attimo qui.'' risponde dalla cucina.
''Ma il tè si raffredda! Papiiiiiii, papiiiiii...''
Sua madre entra in camera. ''E allora? Hai finito di fare casino? Papà sta cercando di sistemare il frigo e io devo finire i miei disegni. Viene a giocare dopo!''
''Ma il tè si raffredda.'' sbuffa Camilla alzando la teiera giocattolo.
''Ho detto dopo. E ora gioca un po' in silenzio!''
''Ma uffaaaa!'' grida la bambina sbattendo ripetutamente la teiera per terra. ''E' tre ore che aspetto uffaaaaa!''
Sua madre non ne può più, le da uno schiaffo, poi cerca di levarle la teiera dalle mani. 
''No, no è mia è mia, mamma no.'' piagnucola Camilla tenendola stretta.
''Mollala! Guarda che ti tolgo la televisione sai? Mollalaaa!''
E' una guerra tra madre stressata e figlia incavolata, due gocce d'acqua tanto nell'aspetto quanto nell'atteggiamento. 
''Che cavolo combinate?'' domanda il povero Cristo dalla cucina, costretto ogni giorno ai battibecchi tra le due.
''Basta!'' urla infine Camilla, mollando la teiera e arrendendosi a sua madre. ''Ti odio, vorrei che sparissi!'' 
Qualche minuto dopo Enrico raggiunge la sua piccola in camera, che versa in tutta tranquillità del tè caldo nelle tazzine di plastica. 
''Tieni papi, questo è il tuo tè. E' bollente, appena fatto.'' dice tutta felice porgendogliene una.
''Oh grazie tesoro. Hai fatto pace con la mamma, sì? A proposito, dov'è andata?''
La bambina finisce di versare, appoggia con cura la teiera sul tavolino, ed esclama in un sorriso grande grande: ''Non lo so, adesso però beviamo questo buonissimo tè, dai.''

A voi continuare...